mercoledì 20 agosto 2014

Giappone 2013: Kobe (tredicesimo giorno)


Tradizionali contenitori per il trasporto del sakè

Mercoledì 10 aprile: Kobe

Se fosse dipeso da me non avrei scelto di visitare Kobe perché questa città non ha nessun monumento degno di nota. Essa è stata scelta dagli sposi solo per far provare agli invitati la famosa carne di Kobe: la carne più buona e più costosa al mondo. Precedentemente l’unica cosa che conoscevo di questa città era il vago ricordo di un tremendo terremoto che aveva distrutto la città nel 1995. Un’immagine in particolare mi era rimasta impressa, forse da un libro di scuola, quella di un complesso di edifici coricati l'uno sull'altro come se fossero stati abbattuti in un gioco del domino. In quell'immagine ognuno di essi risultava integro ma sradicato dalle fondamenta di un terreno fin troppo deformato dal sisma. Ovviamente di quell'evento oggi non resta nulla di visibile. Dal treno che ci stava conducendo in città si scorgeva solo un’ininterrotta distesa di case che non consentiva la distinzione tra una località e l’altra. Se si osserva dalle immagini satellitari l’area di Kobe infatti si nota una conurbazione continua di edifici che la unisce a Osaka. Questa caratteristica è una di quelle che più di tutti ha sempre colpito la mia immaginazione nei confronti del Giappone.



Una scritta in italiano in una chiesa cattolica di Kobe
Il capsule hotel
Dovendo sostare solo per una notte in città ho insistito per dormire in un capsule hotel. I capsule hotel sono un modo assai economico per dormire fuori casa. Potremmo dire che esso è una sorta di ostello, perché si dorme in un ambiente unico. In pratica ciò che si paga è lo spazio vitale di una capsula, una sorta di “tomba” di un metro per un metro munito di TV, wifi e prese di corrente (almeno in genere perché nel nostro c'era solo la TV). Quando si va a dormire ci si infila all’interno di questa cella, si chiude l’ingresso e la tua stanza è quella piccola e asfittica capsula. Assieme a me e Diego si erano uniti nell’esperienza anche due ragazzi venuti al matrimonio: un portoghese e un tedesco. Qualche ora dopo ci avrebbe raggiunti anche Eric il quale aveva toccato altre città, avendo saltato il matrimonio dato che non era stato invitato. Thomas questa volta non aveva accettato, egli preferiva la comodità di un albergo.


Il capsule di Diego
Le formalità all’ingresso erano un po’ le solite, anche se con qualche differenza: si lasciavano le scarpe in una cassetta all’ingresso dell’hotel e si camminava scalzi per l'intero hotel, ci si portava la chiave mentre le valigie restavano di fronte alla reception. Era senza dubbio scomodo dover pensare a ciò di cui si ha bisogno, tipo il pigiama e poi salire di due piani per depositare il tutto nell'armadietto. Nel piano dove risiedevano le capsule c'era tutto ciò che occorreva: le docce, gli armadietti e i bagni. Negli armadietti venivano fornite le asciugamani e a libera disposizione c'erano degli spazzolini le cui setole erano già impregnate di dentifricio: roba da giapponesi. Tra l'altro quando ho visto quei cestini pieni di dentifrici monouso ho immaginato subito cosa sarebbe successo in un capsule italiano, nel giro di poco tempo i clienti ne avrebbero arraffati a più non posso... Per la doccia, che ho voluto evitare per scomodità, si entrava in un'area dove non era possibile camminare scalzi pertanto si prendevano degli zoccoli comuni a tutti. Ancora una volta colpiva questa promiscuità, questa sensazione di essere in una camerata come ai tempi del servizio militare. I volti degli ospiti non erano tra i più affidabili, d'altronde chi veniva in un capsule a meno di un pendolare che si rifugia qui quando perde l'ultimo treno per casa, era gente che non poteva pagare un'accomodamento più oneroso.

Rappresentazione dell'antica lavorazione del sakè
Anche per quel giorno ci siamo separati dal resto del gruppo, dopo aver incontrato Thomas ci siamo spostati verso l'unica attrattiva della città: delle aziende produttrici di sakè. Tramite una mappa turistica ne abbiamo individuate alcune e con la metro siamo giunti nell'area in cui erano ubicate, cioè in periferia. Trovarle non è stato un compito assai facile perché abbiamo percorso strade residenziali anonime. In una circostanza ci ha dato delle indicazioni spontanee persino una signora anziana molto gentile; ancora una volta la gentilezza dei giapponesi colpiva, come colpiva il senso di ordine che si respirava persino nella periferia di una città come Kobe. Mai avevamo percepito la sensazione d'essere finiti in un quartiere pericoloso o degradato come le nostre periferie.
In una delle aziende l'esposizione mostrava le varie fasi di lavorazione del sakè, bevanda ottenuta dalla fermentazione del riso. Gli assaggi facevano sentire le reali differenze di gusto tra una tipologia e l'altra. Il sakè per questo è da considerarsi come il vino e non certo come una bevanda di unico gusto, come il mio immaginario riteneva. Alcune tipologie di sakè paiono più secche, più dolci o più alcoliche. In quell'occasione abbiamo approfittato per comprare delle bottiglie da portare in Italia. 

Quando abbiamo terminato la visita ci siamo ricongiunti al gruppo che gironzolava per la città senza una precisa meta. Infatti per ammazzare il tempo siamo entrati in una grande sala giochi in cui era possibile giocare con i classici videogame di nuova generazione sino a giochini più banali, probabilmente concepiti per i più piccoli. Colpiva la presenza di giochi particolarmente evoluti rispetto quelli da me visti in Italia (non che io frequenti sale giochi o conosca l'evoluzione degli stessi). Ad esempio c'era un gioco dove si doveva battere un tamburo e mantenere il tempo. Di certo non mi incuriosivano in sé ma l'idea stessa di trovarmi in quel contesto e nella patria dei più famosi videogame si!

La carne di Kobe
Dopo una mezz'ora, essendo giunta l'ora di cena ci siamo spostati nel ristorante dove Natsuko aveva prenotato i posti per tutti noi. Il ristorante era parecchio esclusivo e il nostro posto era in una sala con due tavole semicircolari rivolte verso i cuochi e delle piastre dove sarebbe avvenuta la cottura. Dapprima ci hanno mostrato il menù con i vari tagli di carne e un prezziario poco confortante. Ovviamente la cena era accompagnata dal vino. Io che per ragioni personali non amo mangiare carne, optai per un taglio economico, mentre altri commensali avevano scelto quelli più costosi. Dopo aver preso le ordinazioni il cuoco ha preparato le fette di carne e riscaldato la piastra dove avrebbe cucinato. Il piatto vero e proprio consisteva nella carne in sé e di un contorno. La carne più buona e costosa al mondo era certamente ottima, tenera e gustosa e neanche troppo grassa, ma per il mio modo d'essere un conto personale di 14.437 ¥ circa 120 € ha superato ogni mia previsione. In vita mia ho assaggiato della buona carne e per il mio palato (forse poco fine in ciò) il conto non giustificava il piacere che ne avevo tratto: tra l'altro la quantità era anche centellinata. Un po' come acquistare del vino d'annata senza essere degli intenditori, tale mi è parsa quella "follia" che una volta nella vita si vuol passare. In fondo il costo elevato della carne deriva dal fatto che essa è ottenuta da una razza bovina allevata nella zona di Kobe seguendo certe caratteristiche, come quella di un'alimentazione rigorosamente a base di grano. Un po' come i marchi protetti italiani di origine controllata, la carne di Kobe segue lo stesso criterio. Tuttavia tornando a piedi verso il capsule hotel riflettevo sulle sensazioni suscitate da quella cena. Per quanto fossi in grado di spendere quella cifra una tantum sentivo di aver buttato i soldi inutilmente, perché sin da quando si era programmata una tappa a Kobe avevo mantenuto i miei legittimi dubbi su quella spesa. A cose fatte quello sfizio mi sembrava uno schiaffo morale alla povertà e all'indigenza, una spesa che superava qualsiasi forma di spreco in cui inevitabilmente nel corso della mia vita ero caduto. Ma forse quelle considerazioni erano solo il frutto di un'inconscio senso di colpa verso le disparità sociali...

Il cuoco mentre cucina alla piastra

Un piatto di carne di Kobe (si notino le quantità!)

L'alcol e la stanchezza avevano certamente favorito l'esigenza di andare quanto prima a dormire. La notte al capsule non è stata delle più comode. Lo spazio non era poi così asfittico per me, più che altro era la qualità dell'hotel discutibile. Nel capsule ad esempio mancava la presa di corrente per ricaricare l'iPhone e non c'era il wifi in quel piano. Inoltre c'è da dire che nelle stanze comuni di notte si sentono tutti i rumori, chi si ritira tardi, chi accende la luce, chi russa (per fortuna mi ero portato i tappi!) o chi rilascia un peto senza pernsarci su, sono elementi tollerabili solo per una notte. 
A parte questa esperienza non sono mai stato in un altro capsule e quindi non saprei dire se le condizioni in generale siano migliori o meno. Posso solo dire che a una certa ora ho preso sonno e dormito piuttosto comodamente, ma il resto del gruppo ha avuto grandi difficoltà. L'indomani infatti i volti dei miei compagni di viaggio erano piuttosto provati e qualcuno diceva anche di non essere riuscito a dormire.

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