Non era giunto ancora il tempo per la pace nella giovane democrazia di Siracusa, anche dopo aver rovesciato l’odioso tiranno Trasibulo nel 466 a.C. Non era bastata la gioia popolare per l’avvento del nuovo corso politico, poiché un triste presagio pareva affacciarsi oltre la linea dell’orizzonte marino, oltre la sagoma fumante dell’Etna e la grande vallata di Catania. Correva voce che Atene fosse pronta a sferrare un grande attacco navale, una spedizione come mai s’era vista a memoria d’uomo…
Mantenere il potere sull’isola, era per Siracusa un vanto e un’esigenza imprescindibili; una forza che esercitava sui popoli sin da quanto il grande Gelone aveva elevato la città di Aretusa alla gloria di Ares. Con questa innata indole patriottica, il Consiglio della città s’era riunito più volte per cercare di comprendere quanto di vero vi fosse in queste affermazioni. Carichi d’incertezze e paure, i consiglieri ascoltavano l’arringa del generale Ermocrate, che più volte aveva ripetuto la necessità di cercare alleanze tra le città vicine e di allertare tutti gli uomini in armi. Ma l’allarmismo di Ermocrate era contrastato da Atenagora, un abile oratore che considerava infime le sue già note aspirazioni politiche: creare allarmismo nel popolo, istigare la paura che solo un tiranno avrebbe potuto colmare, questi i timori dell’oratore. Per questa ragione inveì con decisione, nell’intento di difendere i principi di una democrazia che considerava ancora troppo fragile.
Eppure Ermocrate parve aver ragione quando in città giunsero informazioni più precise dai messaggeri di Reggio: Atene era in rotta verso Siracusa con una flotta di 134 triremi e 30.000 uomini! In città piombò il panico, non solo tra il popolo minuto e i commercianti, ma soprattutto tra i soldati intimoriti dalla fama della micidiale marina ateniese. Ma non c’era più tempo per la paura, la città doveva prepararsi al meglio per difendere ancora una volta la sua sovranità; così si schierarono tutti gli uomini disponibili, furono chiamati rinforzi persino dalle vicine colonie siracusane: i soldati selinuntini dalla mira eccellente, i cavalieri di Gela e Camarina seguiti da una cinquantina di prodi arcieri. Poi c’era la cavalleria siracusana, l’orgoglio della piccola nazione: agili cavalieri che colpivano di sorpresa qualunque esercito si trovasse nelle vicinanze.
Una trireme greca |
Al primo contatto con le truppe avversarie, i siracusani si mossero all’inseguimento dello sparuto gruppo giungendo sin sotto le mura di Catania. Ma tale comportamento sembrava inusuale per i cavalieri che compresero il tranello sol quando furono richiamati in città da una richiesta d’aiuto: gli ateniesi infatti avevano giocato d’astuzia, ed erano sbarcati in forze nel porto grande della città.
Con le navi all’ancora e con un organizzato accampamento sul versante nord del Plemmirion, gli ateniesi ebbero tutto il supporto necessario per costringere più e più volte i siracusani alla ritirata. Se non fosse sovvenuta la pausa invernale a far tacere le armi, di certo la guerra si sarebbe messa subito molto male! Durante i freddi mesi invernali dunque, partirono immediate richieste di soccorso alla madrepatria corinzia e a Sparta, storica alleata di Siracusa. Ma le richieste impensierivano più del previsto, poiché già logori dalla guerra del Peloponneso, nessun alleato era disposto a concedere uomini: tuttavia, vista l’importanza strategica della città, Sparta inviò uno dei migliori uomini, il generale Gilippo; ai inoltre diplomatici furono concessi preziosi colloqui con Alcibiade, che dopo aver abbandonato la spedizione ateniese s’era rifugiato a Sparta.
Al sopraggiungere della primavera gli ateniesi ripresero gli attacchi, forti di ulteriori contingenti e di un morale assai alto. Aggredirono Megara Iblea e i vicini borghi, incendiando i campi e razziando le case, iniziando le manovre d’assedio su Siracusa. Per questa ragione Diomilo, con un esercito di 600 opliti colpì ripetutamente gli avversari sul fronte nord sotto le mura del castello Eurialo, dove però perse metà del suo esercito. Gli avversari quindi avanzarono ancora, giungendo sull’altopiano dell’Epipoli dove costruirono in breve tempo una roccaforte: il Labdalo. Da qui comandarono l’accerchiamento, erigendo un muro che avrebbe strangolato ogni speranza di vittoria e che in breve tempo iniziò a sortire i primi effetti. L’assedio infatti stava rendendo difficoltosi i collegamenti con l’esterno, tanto da rendere necessario il razionamento dell’acqua e del cibo.
Nel frattempo la cavalleria siracusana cercava nuove vittorie che invece fecero riportare solo ulteriori sconfitte: gli avversari erano molto meglio organizzati e potenti. Ormai non restava altro che contrastare la fatale costruzione del muro ateniese, innalzando un contromuro che ne avrebbe rallentato la costruzione. Tra i numerosi scontri che i valorosi opliti siracusani affrontarono, vi fu quello decisivo dove il generale ateniese Lamaco perse la vita lasciando al comando soltanto Nicia. Forte del vantaggio ormai conquistato, l’ateniese manovrò le sue truppe ingannando nuovamente i siracusani che subirono nell’estate del 414 a.C. un massiccio sbarco tra le rive del porto grande. Adesso la città sembrava pronta al suo destino…
Cosa fare quando il nemico attende la tua fine con fredda determinazione? Era sicuramente questa la domanda che gli strategoi di Siracusa si ponevano, poiché non sarebbe bastato sostituire i comandanti dell’esercito o ipotizzare uno scontro finale per ricacciare gli invasori. Non c’erano più alternative se non quella di avviare delle trattative con Nicia: solo così la città si sarebbe salvata da un’immane ecatombe di uomini, donne e bambini... Eppure c’era chi ricordava che nessun segnale era giunto ancora dagli alleati, e che Sparta e Corinto, non avrebbero mai permesso la caduta di Siracusa. Tuttavia i templi erano pieni di offerte e di donne in preghiera, mentre gli animi parevano presagire soltanto il peggio.
Ma quando tutte le speranze sembravano perdute, un segnale ritenuto divino fu percepito dagli stregoni: dal mare sarebbe giunta la salvezza! Pochi giorni dopo infatti il valoroso generale spartano Gilippo giunse in forze dal mare, sbarcando con rinforzi e viveri che fecero gioire tutti i sacerdoti dai templi e risollevarono lo spirito dell’intera città.
Gilippo prese subito il comando riorganizzando l’esercito e riprendendo un’offensiva che immediatamente si rivelò efficace. Conquistò in breve tempo la fortezza del Labdalo a nord della città, impedendo la costruzione del muro di accerchiamento ateniese grazie ad una serie di importanti vittorie. Poi rivolgendo l’attenzione a sud, verso l’imboccatura del porto grande dove un’importante base ateniese controllava qualsiasi movimento, decise di attaccare, poiché la base ateniese sul Plemmiryon era la chiave fondamentale per capovolgere le sorti della guerra. Per questa ragione Gilippo attuò un tranello: avviò dapprima un attacco dal mare che tenne impegnati gli ateniesi, poi un poderoso attacco da terra che riuscì in poco tempo a completare una missione straordinaria. Il Plemmiryon adesso era in mano siracusana, col suo prezioso tesoro di ricambi e munizioni della marina ateniese!
Dopo l’imboccatura del porto, i siracusani ottennero altre vittorie che amplificarono i numerosi errori tattici degli avversari, perdite che in breve tempo capovolsero totalmente le sorti della guerra. Adesso erano gli ateniesi ad essere impediti via mare e messi in difficoltà nelle comunicazioni con Catania. Per questa ragione Nicia mandò una richiesta ufficiale di aiuto alla patria che fu subito accolta, raccomandando una strenua resistenza sino all’arrivo dei nuovi rinforzi.
Le truppe ateniesi, consce della necessità di resistere, attesero per mesi l’arrivo dei rinforzi che un bel giorno giunsero da est riempiendo l’intero orizzonte marino. Nell’estate del 413 a.C. dal mare apparvero 73 triremi con a bordo 15.000 uomini con mezzi e viveri. La nuova spedizione aveva le stesse proporzioni della prima, per questa ragione il riscatto dei siracusani fu presto raggelato. Come avrebbero potuto far fronte ad una nuova imponente spedizione?
Il nuovo comandante ateniese Demostene attaccando il castello Eurialo riuscì a conquistarlo, fermando ancora una volta l’avanzata del contromuro difensivo siracusano che venne nuovamente distrutto. Ma proseguendo l’avanzata sull’altopiano dell’Epipoli una notte avvenne l’impensabile: senza l’aiuto della luna, gli opliti ateniesi furono incapaci di riconoscersi l’un l’altro, finendo col lottare assurdamente gli uni contro gli altri. La carneficina ateniese durò tutta la notte cessando solo alle prime luci dell’alba, quando sul campo erano rimasti 2500 soldati. Questo massacro si unì alle morìe di uomini causate da un’epidemia divampata nel campo ateniese. Le forze vennero meno, gli uomini non vollero più combattere e nessuno comprendeva più la ragione di una guerra tanto lontana dalla patria, quanto assurda. Demostene quindi decise la ritirata verso Catania.
Nicia però, dopo aver assistito all’eclisse lunare del 27 agosto 413 a.C. interpretò l’evento astronomico come un cattivo presagio. Per questa ragione decise di rinviare il ritiro delle truppe di qualche giorno, lasciando erroneamente ai siracusani il vantaggio di bloccare la fuga verso nord, dove ormai non giungevano più neanche i viveri poiché l’ordine di ritirata era stato già impartito. Sicché quando cominciarono a muoversi le truppe ateniesi trovarono i siracusani ad impedirlo. Dunque non restava altra via di fuga se non quella per mare: bisognava forzare il blocco navale nel porto grande!
Il 10 settembre del 413 a.C. preparate tutte le imbarcazioni ateniesi anche quelle logorate da poca manutenzione o trascurate a causa della guerra, partì l’assalto alla flotta siracusana che sbarrava la fuga. Grande fu la battaglia navale che ne sorse, condotta in ristretti spazi di manovra che determinarono l’affondamento delle imbarcazioni e la morte del comandante ateniese Eurimedonte. L’esito quindi fu ancora una volta a favore dei siracusani che costrinsero i sopravvissuti ad arenare le triremi o a salvarsi a riva, organizzando una rapida fuga da terra. Raccolti i pochi viveri e le ultime armi, i soldati diedero l’ultimo saluto ai compagni feriti e ammalati che non sarebbero sopravvissuti alla lunga marcia che li attendeva. Ormai i comandanti non concedevano più tempo, poiché Nicia e Demostene ordinarono la partenza degli ultimi 40.000 sopravvissuti.
Viaggiando di notte, nel timore di subire gli assalti della feroce cavalleria di Gilippo, gli ateniesi provarono a far perdere le loro tracce battendo i sentieri più impervi. Ma giunti ai piedi dei monti Climiti, furono intercettati dalle sentinelle siracusane che arrestarono la loro fuga armando degli scontri che li costrinsero a cambiare direzione. Puntando adesso verso sud, nella speranza che Camarina o Gela potesse accoglierli, accesero dei fuochi notturni per ingannare il nemico che li avrebbe creduti accampati per una notte ancora. Ma la fuga divenuta fin troppo precipitosa divise in due gli eserciti: l’uno comandato da Nicia, l’altro molto più disordinato ed arretrato, comandato da Demostene.
Ma i chilometri scorrevano sotto i piedi facendo giungere finalmente gli uomini al guado del fiume Cacipari che avrebbe permesso un po’ di sosta e refrigerio. Poi sopraggiunti al fangoso fiume Erineo arrivò la triste notizia che le truppe di Demostene erano state intercettate ed annientate da un fitto lancio di frecce e lance, costringendo i pochi sopravvissuti alla resa.
Il terrore quindi corse dietro la schiena di Nicia che prefigurava un tremendo destino; ma egli era un uomo che non si sarebbe arreso, anche quando i messaggeri di Gilippo suggerivano beffardamente una fine che avrebbe evitato inutili perdite. Giunti nei pressi di Eloro, tra le scoscese rive del fiume Asinaro, il caldo estenuante e la sete annullarono qualsiasi forma di disciplina. Gli uomini accalcati scompostamente lungo il fiume, senza mantenere alcuna difesa, furono improvvisamente decimati sotto i colpi dei dardi lanciati degli arcieri di Gilippo. Valoroso ma non certo crudele, Nicia dichiarò la resa, affinché si salvassero quante più vite umane possibile.
Ma egli non potè immaginare quali sofferenze dovettero poi subire i commilitoni, morti nei giorni a seguire per fatica e dissenteria, contratta nelle luride acque dei campi di battaglia. Condotti in città e subito imprigionati nelle inospitali latomie, cercavano salvezza lasciandosi vendere come schiavi, oppure recitando a memoria i versi di Euripide. Se gli ufficiali e i soldati, morirono di fame e di stenti, lavorando all’estrazione di quelle pietre che fino ad oggi ricordano i monumenti della migliore grecità, i generali Nicia e Demostene vennero giustiziati in pubblica piazza. A raccontare l’ecatombe della grande armata ateniese, furono in pochissimi, sopravvissuti che in patria poetavano i segni dell’astuzia siracusana e gli errori di un’intera nazione.
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