giovedì 7 luglio 2011

La stagione del salice

A Francesco e Massimo,
e alle “Stagioni del salice”.

Ciò che mi sorregge nei risvegli, quando davanti allo specchio osservo la mia immagine stranita dal sonno della notte, è la consapevolezza di sperare nel caos delle possibilità che la vita può concedere. Anteponendo quest’astratta idea all’incertezza del nuovo giorno, imbriglio per alcune ore lo spettro ansioso che nascondo sottopelle, il malessere vorace che inghiotte l’umore di troppi risvegli. Questa indefinita psicosi che spinge le mie azioni all’altrui dipendenza mi ha invogliato per una volta ad immaginare la prossima stagione estiva nella dimensione nuova di una coabitazione, una coabitazione che avrebbe ampliato il numero d’ore concesse allo svago contenendo le individuali solitudini alla stregua di una vacanza. Di contro un relax festivo di una decade o più, tra viaggi e orde di turisti, avrebbe assunto il bilancio probabile di delusioni e angosce da rientro: anche per questa ragione consideravo la mia idea alla stregua di una nuova maturazione.
Colui che rappresentava al meglio la certezza di dividere un’abitazione per alcuni mesi appena senza troppe ritrosie e fraintendimenti era Mauro, amico di vecchia data, confidente di intimi sfoghi e fido complice di nascoste bravate. Non era la prima volta che progettavo qualcosa assieme a lui, avevamo diviso più volte le stanze di un appartamento, tra viaggi di piacere e periodi d’esistenza in comune. Accertata la sua presenza, appariva fondamentale la compagnia di una terza persona che avrebbe ravvivato le nostre giornate senza commettere l’errore di forzare nella scelta, un posto da riempire a tutti i costi. Tra incertezze e risposte di circostanza che sfiduciavano la serietà di troppi individui, abbiamo considerato l’ipotetica presenza femminile di Anita. L’iniziale esclusione era stata valutata per un eccesso di ritrosia, per una sovrabbondante cautela di disequilibri, d’imbarazzi e conflitti d’intimità precluse; eppure ad una lucida riflessione una donna avrebbe fornito un meccanismo intrigante di differenze ed eterogeneità…
Anita accettò subito, divenendo parte integrante del nostro progetto che curammo nell’equilibrio pesato delle individuali esigenze, si univamo infatti, individui diversi nelle esperienze di vita: Mauro navigato da un’indipendenza familiare di molti anni ricercava un’intimità compatibile con la vita in comune, mentre Anita reduce da anni di vita universitaria sembrava più indulgente nei compromessi; infine io, infarcito d’entrambe le esperienze vissute oltremanica, scisso tra esigenze di ricerca solitaria e irrinunciabili immersioni nella vita di gruppo. L’idea estiva era stata più volte affrontata rimarcando la necessità di considerare l’estate come il naturale proseguo della vita di sempre, degli impegni lavorativi e delle abitudini, definendo la nuova dimora come un tranquillo rifugio non troppo distante dalla città. Questa comunione d’intenti aveva favorito la prospettiva di ricercare una villa al mare con la duplice funzione di rifugio sereno e luogo di ritrovo. Su queste premesse considero ad oggi la ricerca e la successiva individuazione della villa, un colpo fortunato che il destino ci aveva voluto concedere, poiché tra le molte proposte, la “villa del salice” (così l’avevamo chiamata per distinguerla tra tutte le altre) sembrava il miglior compromesso raggiungibile. Un salice piangente posto ad ombra di una vasta veranda, identificava l’impressione rassicurante di quell’angolo di penombra. La villa era divisa da tre stanze, grandi a sufficienza per contenere un armadio e persino una scrivania. L’ambiente comune era unito da un salone che s’affacciava in una veranda ombreggiata appunto, dalle folte fronde di un salice piangente; mentre il giardino d’attorno, era tinteggiato dal verde prato inglese e da recinti di aiuole, oleandri e buganvillee. Per quanto l’atmosfera in sé fosse quella campestre, a pochi metri vi era lo stupore di una nascosta discesa verso il mare con le sue scogliere; laggiù dominava un panorama d’incanto della città, estesa dai pendii delle colline della periferia sino all’antico porto, dove poche navi alla fonda scolpivano la loro sagoma nei commoventi tramonti d’inizio stagione.

La nostra convivenza era cominciata nella prima decade di giugno, immersi in un clima afoso di piena estate, preludio di giorni avvenire ben più caldi ed intensi. Superato l’inevitabile ambientamento, l’immediata percezione del mutato domicilio emergeva nei silenzi notturni o nel rassicurante canto degli uccelli di primo mattino. E nel mentre prendevano forma le nuove abitudini, il calore interiore della comunione d’identità rafforzava l’impalcatura emotiva della nuova vita. Le “riunioni di famiglia” non erano semplici meeting decisionali ove stabilire la posizione migliore per un mobile o un tavolo troppo lungo; quei momenti rappresentavano l’esigenza spontanea di coesione, specie al termine di una giornata, quando ci si ritrovava sotto la tenda protettiva del salice godendo del fresco umido di prima sera. In quei frangenti prendevano corpo le immense discussioni sull’esistenza o sulle scelte intraprese nottetempo: s’aprivano i riposti cancelli dei caratteri, scoperchiando le ragioni di stravaganze e sotterfugi comportamentali, spesso incomprensibili ad un’analisi di mera superficie. Certamente tra me e Mauro la reciproca conoscenza vantava un curriculum di diverbi e puntuali riconciliazioni, nei quali avevo spesso riposto il fondamento positivo d’aver meglio compreso le ragioni d’un amico, nonché la certezza d’aver acquisito ulteriore completezza al nostro rapporto caratteriale. Tale approfondimento mi aveva permesso di giustificare il cinismo con cui Mauro reagiva da sempre alle implicazioni emotive del suo lungo rapporto con Giovanna, rapporto mutato nel tempo in atti pungenti e gesti incoerenti d’affetto. Anita invece, continuava a mantenere la prudente riserva di celare i bastioni del suo essere persistendo nella discrezione del silenzio; eppure nel breve volgere dei giorni, s’era avvertita un’inattesa inversione d’intenti, quando intimamente raccolti, amavamo esternare le agrodolci sensazioni del presente: proprio in quei momenti Anita mostrava già dalle prime settimane, una crescente esigenza di condivisione, specie verso Mauro il cui livello di conoscenza era confinato da anni di saluti formali. Nella sua progressiva apertura, Anita aveva confessato la ragione delle piccate risposte alle nostre celie, quando per goliardia citavamo i nostri molteplici voltafaccia o le vigliacche bugie recitate teatralmente nei ricordi di passati flirt: in quei frangenti, giocavamo il ruolo vanesio di uomini-carogna, d’insensibili seduttori, intenti a rievocare ingiustificate cattiverie. Vi era infatti qualcosa di veritiero nelle nostre parole, che nella rievocazione esprimevano l’immaturità del nostro passato e l’inqualificabile colpa di raccontarli proprio ad Anita che esplodeva nel parossismo puntuale della rabbia. Le sue reazioni furono comprese (a fronte di un necessario chiarimento) esternando le ragioni di passate delusioni, per cui intensità d’affetti aveva minato qualsiasi sconto di fiducia ai disordinati rapporti con l’altro sesso. In lei pareva emergere il disequilibrio di un desiderio di maternità soffocata da relazioni senza apparente significato. Così per quanto l’estetica di Anita trasmetta un impatto di sicura e fredda determinazione, lo scavo interiore nelle ragioni prime di gesti ed azioni, coagulava un’essenza sofferta di rimpianti e amari calici di rassegnazione. Il suo umore, fin troppo simile a quello celato dietro smorti visi di moderne vestali, onnipresenti entità di riti mondani, combaciava nella rappresentazione, alla reazione nevrotica del contemporaneo male di vivere. Tuttavia scindendo i logori stereotipi di preconcetto, svestendo di nuda essenza la personalità di Anita, subentrava un’immagine chiara e ben definita: la farsa dei suoi atti esteriori era la patina confezionata di ciò che provava nel “dietro le quinte” del difficile ritorno al silenzio della propria stanza, quando riapriva le ferite sofferte di un’affollata solitudine.

Sorprendeva nel nostro “ritiro estivo”, l’apparente conferma di considerare la villa come un rifugio dalle inquietudini della vita. Il mio lavoro da imprenditore infatti, non concedeva troppe libertà di svago: il lusso di poter cancellare per alcune ore appena lo snervante logorìo di vicende professionali. Invadente come pochi mestieri, lottavo nella perpetua esigenza di liberarmi dal peso delle preoccupazioni: le commissioni in sospeso con i fornitori, i pagamenti fiscali in scadenza, le beghe contabili e quelle legali, i bilanci non troppo in attivo, e infine l’angosciante prospettiva del futuro... In genere le attività commerciali determinano un rinnovo organizzativo delle vendite e della gestione, ben più frequente di quanto s’immagini, nella speranza che i vitali investimenti occorsi, consentano una sopravvivenza agonizzante per altri anni ancora; poiché l’economia d’impresa ancorata alla crisi dei consumi, ed unita ad un contesto di locale stagnazione, ne decreta l’inevitabile collasso finanziario, subentrando così, un logorante gioco al massacro con cui convivere per troppi anni: da quando il peso delle responsabilità s’era accentrato repentinamente tra le mie mani. Di certo il mio mestiere appartiene al mito sempreverde della ricchezza e del buon vivere, unito ad un’immagine d’ingordigia e vessazione dei dipendenti; eppure in questi luoghi comuni, in questa rappresentazione preconcetta d’uomo di successo, non avverto comunanza. La classe imprenditoriale la considero come una categoria di genti che abbia le innate doti della sopravvivenza e del rischio: una mera lotteria, cui molti sopravvivono grazie a poco leciti artifici finanziari. Così, se la romantica visione del mestiere che un tempo era di mio padre, riempiva d’orgoglio l’animo adolescente dell’unico figlio; dopo il suo volontario abbandono per raggiunti limiti d’età, ho ritenuto l’eredità un fardello insostenibile. Il moltiplicarsi delle difficoltà, l’imperterrito avanzare di un’insoddisfazione ormai del tutto matura, sconvolgevano il mio essere e l’equilibrio necessario su cui sorreggere l’esistenza. Dunque nel salubre ricovero della villa, avevo stabilito il metro della mia emotività con una consapevolezza ancora esente dal freddo coraggio di compiere scelte drastiche: cambiare del tutto vita.
Questa affermazione è fin troppo spesso abusata nonché carica di speculazioni, per cui superficialmente si afferma di “voler cambiare vita” quando si è stanchi della routine quotidiana, quando per eccesso di zelo si vorrebbe accantonare, anche per un breve periodo, le noiose certezze della propria esistenza. Diversamente, il significato personale con cui io interpreto il “cambio di vita” è una modalità definitiva e irreversibile di abbandono della professione. Così ogni qual volta mi capitava di raccontare il mio desiderio, l’interlocutore di turno poneva subito la lecita contro-domanda: «E poi cosa farai? Come vivrai?»
A tale quesito ritengo di non aver mai trovato risposta definitiva, poiché le idee ed i sogni, conterebbero variabili mai troppo vagliate. Il conflitto di prospettive che da sempre ponevo su questo tema, era ulteriormente accresciuto dall’instabilità emotiva con cui affrontavo le mie scelte di vita. Coerente al mio carattere, le indecisioni hanno sempre interpretato al meglio il fragile ruolo del mio essere; laddove iniziavo qualcosa finivo dell’altro per riprendere daccapo una nuova scelta: così è stato negli sport, così è avvenuto persino nelle relazioni affettive, mai una certezza, mai una decisione convinta. Tuttavia è necessario chiarire che in questa mia indeterminazione, mantenevo saldi aspetti mai valorizzati del mio carattere. A onor del vero, credo di poter affermare che una mia dote innata sia concretamente riposta nella letteratura che sin da piccolo induceva una stupefacente attrazione verso i libri. Allora amavo collezionare tra gli scaffali della mia stanza, libri di fiabe e racconti che genitori e parenti mi regalavano, i quali dopo averli divorati anche più di una volta, venivano riposti in bella vista, in attesa del regalo successivo. Tempo dopo, scoprii il piacere intimo di scrivere un diario di sensazioni con cui cullavo il mio spirito sognatore, un diario, che nascondeva il germe di una passione per la descrizione e l’analisi delle quotidiane vicende; esso era il personale sfogo dove esorcizzare le adolescenziali inquietudini, riponendo nell’intima indagine degli accadimenti, l’evoluzione rapida della mia maturità. Poi però, colto da un immotivato paravento di pigrizia ed infantile pregiudizio, ho ucciso precocemente quell’amore per la fantasia che aveva arricchito di sogni gli anni verdi della fanciullezza… Riposti i libri ed i diari, preferii cogliere l’effimera scorza di vitalità nelle molte amicizie e nei primi languori d’amore. Sicché col senno del poi, scevro da pregiudizi, ho riscoperto l’esigenza di perdute qualità, per cui mi sono riappropriato di fantasie ormai adulte; è stato l’aiuto di Anita, la perseveranza di consigli e la sua gratitudine ad introdurmi nella percezione nuova delle parole, nell’espansa armonia dei vocaboli di poeti ignorati e scrittori mai letti. Così tra riflessioni e svolte interiori, ho cominciato ad acquisire l’amore per la lettura: prima di dormire, o nei sempre maggiori istanti di riposo domenicale.
Tornando al concetto di “cambio di vita”, la mia evoluzione interiore non supportava solo materiali conquiste di tempo libero, ma un concetto saldo di esistenza vissuta senza disillusioni o vani riempitivi. Ciò che materializzavo di volta in volta, era la visione concreta di una quotidianità vera. Provavo ad esempio, ad analizzare le frequenti sortite, le vane speculazioni di divertimento cui da sempre mi ero sottoposto, accorgendomi che le mie sere a volte erano il palliativo di una solitudine interiore. Così nella consapevolezza delle azioni, era sorta tra le confidenze di Anita e Mauro, la percezione nuova del mio essere, la profonda comprensione di me stesso e delle mie paure; grazie a loro cominciavo a comprendere le ragioni di certi atti che parevano non ammettere una causa prima. Superata infatti ormai la soglia dei trenta anni, si palesa uno scollamento di intenzioni tra il vissuto anagrafico e quello interiore, di una volontà cieca che giustifica l’agire con il pensare, lasciando emergere la pregnante ansia d’inesistenti relazioni sentimentali.

Opposto al mio carattere, Mauro incarnava l’apparentemente indole pacificata tra il desiderio e la volontà. Impiegato presso uno studio contabile, con il riposto sogno di uno sviluppo possibile del suo mestiere, superava le quotidiane frustrazioni nel sentimento stabile per Giovanna e nell’indole appassionata di amanti d’occasione. Egli possedeva il fascino irresistibile d’un innato savoir faire con cui colpiva la debole nota delle femminili sensualità. Di questo dualismo di vite non avevo mai vissuto le reali conseguenze, poiché Mauro aveva da sempre gestito le sue “scappatelle” con assoluta discrezione: salvo saltuarie confidenze tra uomini, cui realtà e finzione, a volte si legavano esasperandosi. Ma nella convivenza estiva, la persistenza d’un vizio duale estendeva nell’inganno la complicità dei nostri comportamenti quando in assenza di Giovanna, giungevano rumori di visite notturne o ammiccamenti d’ospiti non sempre graditi. In quei frangenti sopraggiungeva inevitabile il turbamento della nostra consapevolezza… La cortese simpatia di Giovanna, mal si conciliava con il tacito assenso cui io e Anita ci macchiavamo impunemente; Giovanna pareva mostrare le caratteristiche proprie d’una donna perfetta: in lei la bontà s’univa alla solidità d’un carattere sobrio, rendendo le sue visite un piacevole incontro. Sicché ogni qual volta assistevo alle premurose attenzioni di Mauro, mi chiedevo lecitamente quale esigenza giustificasse il vizio fugace di un rapporto ulteriore. Di certo l’argomento non era mai stato troppo lindo, poiché l’interessato rifuggiva lucide ed oggettive spiegazioni che spesso richiedevo più per chiarezza che per invadenza. Così finivo col restare impigliato in una vaga parvenza d’idee, supponendo una logica sin troppo istintiva per poter essere spiegata col criterio della razionalità: forse il concetto stesso di tradimento era un pensiero ignorato alla sua mente, con il comodo della cieca volontà di realizzarne il desiderio. Il sentimento per Giovanna probabilmente era autentico, seppur manipolato dall’esigenza d’un appagamento sensuale con donne prive di anima; eppure risultava difficile la comprensione di tali scelte se non nel disequilibrio di un’insoddisfazione di profonde radici. Ma per quanto provassi a comprendere le sue motivazioni, confidavo in un’etica del rispetto che frenava ogni giustificazione possibile: nell’indole umana l’appagamento dei sensi alla sottomissione della volontà è, a parer mio, un’inevitabile guerra che impone l’inscindibile rispetto di secolari regole. Tale era il pensiero su cui fondavo la mia etica esistenziale, combaciante nei contenuti con quella di Anita, seppur più rigida e conservatrice di me. Tuttavia, mi capitava sempre più spesso di ragionare (a paragone) sulle motivazioni istintive dei miei comportamenti con quelli di Mauro, ipotizzando la meta comune di una lungimirante felicità. Avveniva da troppi anni ormai, di ritrovarmi tra le braccia di donne che amavo al più, per il fascino estetico del viso, per la silhouette perfetta del corpo, o per un’improbabile e quanto mai forzata comunanza di vedute. In loro cercavo la speranza perduta di una pace con me stesso, d’un equilibrio tra mente e corpo che per alcuni giorni m’illudevo di appagare nell’invenzione artefatta d’una relazione. Ma mentre Mauro sembrava vivere la sua disarmonia nell’apparentemente ricerca di pacate soluzioni transitorie, io continuavo ad affannarmi nel desiderio effimero di una precaria ingordigia sensuale; così il significato delle sue azioni, quello mio e di molti altri conoscenti, appariva come un’ossessione verso la completezza, uno sbandamento tra le indeterminazioni dell’esistenza e l’utopia di uno stato irraggiungibile di atarassia. Credo infatti, che a spingerci verso la forzatura dei sentimenti sia l’istinto di una sopravvivenza migliorata: quindi giudicare le scelte di Mauro mi appariva invero un gioco scorretto, poiché per altri versi, la trave del mio occhio faceva apparire ridicola la pagliuzza del mio amico. Riducendo ai minimi termini il ragionamento, provavo a non giudicare più le scelte altrui se non nel metro psicologico d’un ipotetico analista. Quali che siano i drammi della nostra interiorità, quali le storture o le strategie inefficaci del nostro ego, la gestione dei comportamenti appare come un vademecum psicologico con cui affrontiamo questo mondo, seppure di esso proviamo da sempre a nascondere con paraventi di finzione, la reale entità del nostro male di vivere…

Trascorso più di un mese, la nostra vita sembrava aver raggiunto la stabilità positiva dell’abitudine, un’abitudine che ci faceva considerare quelle pareti e quel giardino come parte integrante della nostra giornata; al ché il primo periodo in villetta s’era mantenuto piuttosto tranquillo: un po’ per pigrizia, un po’ per distrazione, la “villa del salice” era divenuta una sorta di dormitorio, dove ci si ritrovava (a parte i pochi minuti del mattino) all’ora di cena. Dunque sembrava ormai giunto il tempo di aprire il nostro rifugio alla condivisione dei tanti amici organizzando un party per l’estate… La festa nasceva dal contributo diretto degli invitati da cui sarebbe provenuto un apporto di musica e alcool; quanto al numero dei convenuti, il calcolo suggeriva l’esaurimento di ogni spazio disponibile in villa, avendo concesso l’invito agli “amici degli amici” senza il vincolo di troppe restrizioni.
Il nostro impegno organizzativo fu ripagato da una serata indimenticabile, amplificata dall’ebbrezza di unire in un sol luogo amicizie eterogenee legate da un rapporto fiduciario di amicizia e stima. Vi è tuttavia da considerare anche un aspetto di mero autocompiacimento nel concedere la propria dimora all’altrui ospitalità, poiché divenne spontanea la vanità di assurgermi a protagonista e reggente di una corte di amati lusingatori. Infatti oltre alla duplice veste di coinquilino e direttore improvvisato di un’umile orchestra di posate e bicchieri, amavo compiacermi nell’accogliere gli invitati con clamore esibizionista, oppure lasciarmi coinvolgere dalle sciarade di ex fidanzate, le quali oltre ai monotoni complimenti presentavano persone su persone, di cui al conteggio finale avevo perso il numero e la memoria dei nomi. Eppure nella confusione di volti e strette di mano rimasi colpito da Medea, una ragazza che oltre all’omonimia d’una tragedia greca possedeva la grazia e la bellezza d’una ninfa del mare. Secondo uno studio inglese, un uomo sceglie una donna stabilendone qualità attrattive ed estetiche con un tempo variabile di alcuni secondi; così se in questo frangente non subentrano modifiche evidenti all’impressione iniziale, nel tempo medio di quindici secondi tra la stretta di mano e la mia presentazione, ebbi l’onore di inserire il mio caso nel range della casistica citata. Così nel descrivere la circostanza della sua conoscenza, devo anche confessare l’immane vergogna provata in quel momento. Quando Laura (amica ed ex fidanzata di passate vicende) m’introdusse con la celia di sfrontato Don Giovanni, la mia reazione si rivelò opposta alle attese, scollegando per un istante il cervello dalla realtà, balbettando un qualche saluto fuori luogo: «Ciao, io sarei Chicco». Forse è avvenuto grazie all’inevitabile scenata di sorrisi iniziali, perché il mio infelice biglietto da visita si tramutasse in un fruttuoso recupero di simpatia; anzi, credo proprio che il turpiloquio di autoironie con cui avevo frenato il mio disagio incipiente, avesse favorito un’immediata ed inattesa confidenza. Per quanto i suoi ventitré anni differissero dai miei di ben due lustri, le movenze feline da neo-donna, il tono invitante della voce e l’intenso sguardo da indagatrice, emanavano uno charme da perfetta maliarda… Questi aspetti, accompagnati dalle disinibizioni dei primi fumi d’alcol, decretarono una miscela tattico-istintiva che spegneva ed innescava, la miccia delle mie incoerenti azioni.
Distratto dall’arrivo degli ultimi invitati, volli soffermarmi un attimo con Mauro per commentare in brevi parole l’esigenza di un sostegno psicologico al mio ultimo trasporto emotivo; ma egli precedette ogni mio proposito con un cenno istintivo del volto che invitava ad osservare una ragazza seduta sul divano del giardino: «…è un’ex-collega di lavoro, ventisette anni, commercialista: ci siamo rivisti qualche giorno fa mentre andavo in ufficio. Non mi ha mai concesso troppa confidenza, eppure quando le ho chiesto (quasi per gioco) il suo numero di telefono non ha tergiversato: credo le farò presto una visita…» disse con un sorriso di compiacimento. «Mi sembra un bel tipo… Magari se ti facessi dare anche il numero dell’amica accanto, a giorni una qualche visita potrei farla pure io!» Era un vizio il nostro, di ridurre impudicamente ai minimi termini i discorsi in tema di donne; in chiave cifrata, il linguaggio si applicava soprattutto a coloro che ritenevamo più lascive, marchiate da dicerie di fonti anonime come assidue amanti d’incontri occasionali. Così con lo stesso spirito, proseguendo nei contenuti del discorso precedente, Mauro aggiunse: «Sembra che qualcuno stanotte dormirà con Anita…» In un angolo del giardino, già da alcune ore Anita s’intratteneva con un ragazzo che non avevo mai visto, un idiota senza stile né coscienza; un giudizio il mio che nasceva dal palesarsi di elementi esteticamente banalizzanti della sua personalità, come lo sfoggio infantile di muscoli da palestra, di gesti non troppo posati e d’un gusto cafone nell’abbigliamento. Confesso inoltre, che più d’ogni altra cosa, m’infastidiva la raggiunta confidenza di abbracci e baci che Anita raccoglieva con sorrisi enfatici. Così nell’ipocrita veste di amico avevo deciso di sciogliere la personale curiosità di conoscerlo realmente onde chiarire se la mia impressione da lontano corrispondesse a quella da vicino. Bastarono poche parole affinché Paolo (così si chiamava), confermasse la mia perspicacia di giudizio con un entrée en scène di luoghi comuni e inciampi d’un italiano misto a dialetto. Questa conferma palesava per l’ennesima volta la personale tesi secondo cui le donne posseggano uno spirito masochista di dominio verso uomini mediocri: eterei partner da coartare secondo astrusi voleri; seppur in questo caso, tale scelta si collocava forse, come reazione istintiva all’epilogo infelice delle sue relazioni. Eppure consideravo il suo atteggiamento un infamante gioco al ribasso con cui svalutava gli uomini e persino se stessa, al fine di coprire le sofferenze possibili di una rinnovata sconfitta. Così nella scelta di un’attrazione puramente estetica, Anita avrebbe potuto dominare le modalità di un rapporto che riempisse meglio i tempi vuoti delle sue giornate...
Abbandonata Anita con le sue scelte, mi ero lasciato distrarre dai tanti amici che da diverso tempo non frequentavo: ex soci d’azienda, ex compagni di viaggio, ex amici fedeli, ex ricordi dolce-amari del tempo perduto… Eppure tra le mille disattenzioni della festa il mio pensiero tornava fisso su Medea, che seduta accanto alle sue amiche, partecipava distrattamente al rito del chiacchiericcio. Confesso che l’immagine che stavo costruendo di lei amplificava un interesse che m’invogliava a vestire ulteriormente il mio ruolo di adulatore cortese, scevro per una volta, dalla finzione scenica di concedere complimenti per mera finalità sensuale: per una volta infatti, ogni mia azione era alimentata da sincere lusinghe, determinando un perfetto ed inatteso savoire faire, un’audacia e una determinazione impeccabili: finché nella risacca agitata di scherzi e divertimenti, ho ottenuto il codice cifrato del suo telefono.
La nuova conoscenza non era certamente un evento epocale nella mia esistenza: di certo non era la prima donna a cui chiedevo il numero di telefono, anche se questa volta, il mio gesto sembrava sorretto da una piena convinzione e da un’irresistibile voglia di mantenere stretto il filo sottile della sua personalità; o forse mi ero lasciato cogliere dal fiat di una piccola sbandata…

Nei giorni avvenire, il volto di Medea era divenuto un dolce tormento, il languore d’un improvviso e genuino sentimento, raffreddato semmai, dal razionale autocontrollo di non voler commettere errori. In effetti già dal giorno successivo alla festa, avrei voluto delittuosamente agire d’istinto, inventandomi una scusa qualunque pur di ascoltare la carica sensuale delle sue parole. Avevo tuttavia preferito abbracciare la personale regola empirica che professa cautela, il mantenimento di un silenzio armato prima di sferrare un attacco; questa sciocca regola che saprei giustificare col metro di concedere più tempo al desiderio e poco all’istinto, conserva secondo me, una sua validità logica. Infatti l’attesa forzata di quei giorni, fu un atto di cautela contro il trasbordare repentino d’una passione che avrebbe rovinato ogni cosa; è pur vero che a produrre bile d’angoscia è l’indeterminatezza dell’altrui pensiero, l’incertezza di non aver chiare le intenzioni della donna da corteggiare; e dunque non sapendo ancora quali sentimenti Medea provasse per me, valutavo mentalmente ogni ipotesi: dalla finalità sessuale, sino all’autoinganno della perfetta recita d’una sera. Così distruggendomi in congetture, dopo alcuni giorni sono giunto all’esame della prima telefonata…
Quando la personale costruzione di fantasie raggiunge nella propria mente un esasperato livello di saturazione, la realtà oggettiva degli accadimenti sembra essere percepita come un evento inatteso; Medea aveva mantenuto la sua cordialità, proprio come l’avevo conosciuta quella sera, smantellando già dal primo incontro la tempesta di dubbi che m’aveva assillato per giorni interi. Poi dopo un tempo breve di poche sere, la certezza di un corteggiamento di sorrisi e carezze sciolse ogni riserva nella passione repentina del nostro primo bacio.
I primi giorni della nostra unione, li avrei scolpiti in un album di sensazioni da rivivere ogni qual volta rinnego i dolceamari equilibri dell’esistenza. Proprio come avviene rare volte nella vita, mi immersi in un reale sentimento di passione che nel disequilibrio dei ruoli esigeva continue conferme d’affetto; quest’impeto decretava uno scivolamento d’umore per futili cause, mutando le mie giornate in algebriche moltiplicazioni di gelosie. In quei momenti sorgeva la convulsione di chiamare Medea, di sapere dove fosse: se intenta all’impegno gravoso dello studio o ad una presunta farsa d’inganni e tradimenti. Vi era forse una qualche ragione patologica atta a scatenare un impeto del tutto inedito, sconosciuto a me stesso e agli altri: una gelosia accesasi morbosamente senza ragione apparente. Così mantenni un sentimento di conflitti e passioni che certamente Medea mal sopportava, rifuggendo sempre più spesso nell’impeto distruttivo dell’ira.
Avviene spesso che i rapporti d’affetto paiano mutare di forma nell’atto stesso del proprio amore, determinando il contraccolpo della disaffezione, l’inatteso travaglio d’un incomprensibile epilogo senza ritorno alcuno; tale divenne la mia condizione, quando percepii la disgregazione compiuta di atti indecifrabili, la risposta allarmante di un improvviso e quanto mai repentino tracollo sentimentale. In poche settimane Medea non era più la stessa donna, non era più la dolce ragazza conosciuta la sera della festa in villa, la stessa donna che ricambiava in sguardi l’attrazione compiuta del primo incontro. I suoi gesti erano diversi, atti spesso a contenere la foga di un necessario recupero: forse era per questo motivo che rifiutava i nostri incontri e gelava d’indifferenza il mio desiderio d’amplesso. Ammetto che l’intera vicenda mi aveva scosso, non solo per la rapida evoluzione degli eventi, ma soprattutto per la svilente sensazione di un declino senza soluzione. Ciò che accusavo in Medea era il taglio deciso di qualsiasi ripensamento, senza ulteriori chiarimenti, senza la delicatezza di concedere alcun alibi di compassione; e così additato sul banco dei condannati, mi sentii come un cucciolo abbandonato da un padrone ingrato che alla porta di casa mi abbia lasciato con queste lapidarie parole: «Io e te, non abbiamo mai cercato la stessa cosa…»
E’ difficile comprendere in appieno le scelte di una donna, specie se il comportamento occorso sia stato d’affetto indistinto e morbosa condivisione. Reputo tuttavia d’aver commesso l’errore di considerare Medea quel “tutto” attraverso cui cancellare il “nulla” del passato: relazioni con cui avevo tergiversato senza troppe responsabilità ed emozioni. Così apparentemente, scontavo il contrappasso di un destino che si ribellava ai troppi inganni del tempo andato, quando ignoravo quali effetti possa produrre il dolore di un innamoramento bruscamente interrotto...

L’affaire Medea aveva inevitabilmente determinato un disfacimento nei nostri equilibri di coabitazione. Più volte Anita e Mauro avevano rimproverato il mio declino, le mie disattenzioni, poiché nelle mie rare apparizioni spendevo troppo tempo tra telefonate di chiarimento e congedi di notti sempre più corte. In effetti nelle ultime settimane avevo smarrito le fila degli accadimenti, oscurando in cecità le sotterranee vicende occorse tra Anita e Mauro…
Quasi dimentico del deficit di stima causato dai preliminari del flirt tra Anita e quel tale Paolo; avevo riposto in un cantuccio della mia mente ogni ulteriore considerazione se non quella che i giudizi formulati al soldo di singoli accadimenti valgano poco, quando non si unisce il fondamento necessario d’una visione ampia dei caratteri e delle attitudini individuali. Questa considerazione è del tutto necessaria se non si vuol subire il discredito della propria ritrattazione, l’offesa intellettuale d’un giudizio con insufficienti elementi probatori: tale infatti fu la mia colpa, giungendo presto a giudizio, ignorando i contorni di motivazioni ben più grandi. Negli ultimi giorni avevo certamente notato le crescenti ansie di Anita e gli inusuali silenzi di Mauro, considerandoli nel complesso come segnali di una crescente insofferenza alle mie colpe. Così avevo adottato la scelta mediata di vestirmi di discrezione: un po’ per imbarazzo, un po’ per distrazione, avevo preferito tacere, attendendo l’occasione giusta per esprimere il rammarico del mio comportamento. Così solo dopo essersi conclusa la burrasca di pensieri che m’aveva investito di sensi di colpa e dubbi laceranti, potevo ritenermi in grado di ascoltare gli altrui problemi con mente più serena. Tempo dopo infatti al ritrovo improvvisato d’una birra, nell’intimità domestica di un raro momento di quiete, un secco: «Come stai?», poteva caricarsi del giusto significato interiore, spogliato della sciocca consuetudine d’una replica piuttosto vaga… Proprio in questo modo era cominciata una lunga discussione tra me e Mauro, nell’esigenza di riprendere un dialogo interrotto da settimane.
Dopo aver sostenuto un processo sommario alle mie mancanze, unito ad accuse di morbosi eccessi a contrasto degli errori con Medea, si era avviato un ragionamento sull’insostenibilità prolungata della condizione da status single che oltre ad abbracciare la quotidianità della mia coscienza, piombava nell’argomento comportamentale di Anita. Con mia sorpresa, Mauro era a conoscenza di molti aneddoti riguardanti la nostra amica: tanti, talmente tanti da far scattare subito la molla di un dubbio; un dubbio un po’ invidioso e un po’ irato, per ciò che oramai attendevo dalle sue parole… Quel tale Paolo, era stato una parentesi breve di pochi giorni, un disastro annunciato su cui Anita rimpiangeva gli errori e le fragilità di donna non più ingenua. La giustificazione a tale scelta si palesava nel procedere a ritroso su accadimenti a me ignoti che solo le confidenze di Mauro potevano svelarmi. Precedente ai giorni della festa il pathos d’un bacio rubato alle sottili labbra di Anita ruppe gli indugi di una manifesta ed inopportuna voluttà, determinando nella convivialità dello stesso tetto i fremiti di reciproche malizie e puntuali cadute. Eppure nel meccanismo comodo di un rapporto misto tra complicità e desiderio, Anita cominciò a dilagare nell’inatteso fuori programma di pretese sentimentali, seguite poi da ingiuste accuse di maschilismo. Tale comportamento sorgeva nell’instabile metamorfosi di una stagione luminosa oscurata dallo strazio di giorni senza troppa lode: così l’idea assurda di sfaldare gli equilibri di una relazione sorta per caso, diveniva una giustificazione di compromesso alle molteplici anime di se stessa. Tuttavia in questo mutamento d’intenti, ogni ipotesi diversa da una brusca conclusione era lo scandalo di un’unione senza futuro, di un sentimento senza soggetto. Quindi nella chiarezza interiore di non desiderare alternative senza le certezze di Giovanna, Mauro aveva già respinto ogni diversivo, considerando Anita il palliativo di fugaci fremiti extra-coppia. Dunque con queste motivazioni sarebbe irrimediabilmente crollata ogni velata apparenza di futuro, chiudendo in una fortezza d’indifferenza l’avventura imprevista della loro estate…
Questa reazione aveva indotto Anita a rivolgere contro se stessa l’illusione ripetuta dei suoi sentimenti, interiorizzando l’esigenza di usare la ragione contro i danni delle proprie passioni. Tuttavia giunta improvvisa l’idea della festa, un’opposta conversione d’idee l’aveva spinta ad alleggerirsi d’ogni fardello morale: non più processioni di rimpianti ma una reazione decisa contro un fato apparentemente avverso. Un po’ per vendetta, un po’ per autoannullamento, Anita aveva cominciato a svendere ogni ritrosia verso uomini come Paolo: con cui fare l’amore come fosse un calmante, da assumere a piccoli sorsi pur di scacciare le quotidiane ansie.
Personalmente ho sempre sostenuto che nei dissapori tra due persone vi sia da considerare un concorso di colpa di entrambe le parti, poiché ognuno contribuisce nel comportamento ad inasprire ulteriori reazioni; sicché consideravo Anita rivestita di una doppia veste, da un lato fragile vittima degli eventi, dall’altro approssimativa autoingannatrice di se stessa. Con queste premesse tentavo nell’autoinvestitura di paciere, a ricucire ciò che s’era sfaldato tra le pieghe di incomprensioni e astii prolungati che avevano annullato ogni comunicazione tra i due contendenti. Nel ripetuto tentativo di avvicinare quel tassello mancante di dialoghi e confidenze, parlavo spesso ad Anita con lo sprone continuo di risollevarne il morale e la vitalità. Fu un lavoro di lenta fiducia quello a cui approdai, giungendo dopo alcune settimane a quell’intima conoscenza in grado di accedere alla cortina di filo spinato con cui celava da sempre il suo essere. Il mio interessamento verso Anita non era una scommessa da vincere con me stesso, né un obiettivo di mero vanto, esso era da considerarsi come l’esigenza di conoscere meglio una persona con cui condividevo lo stesso tetto; certo bisogna aggiungere a questa superficiale motivazione, la spinta emotiva di una voluttuosa simpatia sorta tra le cordiali consulenze libresche e le carnali provocazioni del suo corpo. Come in un mix di sacro e profano, andavo scoprendo in Anita la dimensione nuova di una donna esigente, desiderosa di una maturazione stabile della propria vita: da un lato l’incertezza del proprio mestiere, le cattedre a scadenza e l’annuale lotteria della nomina successiva; dall’altro lo svilimento della sfera maschile, interpretata con le negative accezioni d’un ensemble d’amorali individui senza redenzione. In questa matrice interpretativa giorno dopo giorno affondava il sogno ormai vago di una maternità, e la certezza difficile di una famiglia da costruire. Era dunque il calpestare continuo dei sentimenti, la demonizzazione degli affetti come cura da cui guarire, ove scaturiva la ricetta d’intenzioni con cui Anita affondava in una personale odissea di rimpianti.
A fronte di tali considerazioni avevo ricucito il loro strappo, quando finalmente costrinsi entrambi ad un gesto di conciliazione che sancì in un dopocena, l’armistizio delle reciproche debolezze…

Per quanto il nostro calendario di sensazioni consideri i giorni successivi al ferragosto come appartenenti allo stesso mese in cui si concentrano le principali ricorrenze estive, il clima psicologico e atmosferico che ne segue è ogni volta ben diverso; dopo il quindici di agosto sembra scendere una cortina, un sipario grigio che delimita il passaggio brusco da una stagione all’altra. Eppure sino ai primi giorni d’ottobre, dalle nostre parti il sole è ancora caldo, le giornate sufficientemente lunghe per percepire l’inganno di considerarsi ancora nel mese di giugno. In effetti, il superamento di questo confine psicologico rendeva ansiosi i miei giorni, riproponendo come ogni anno, la solita angoscia stagionale; seppur coccolato dall’idea di ulteriori settimane di conforto comunitario prima del nostro distacco, sentivo in realtà il peso conclamato d’un altro aspetto della mia esistenza: l’avanzamento di un altro anno ancora. Il sopravanzare del tempo determina un sempre maggiore distacco da quell’era dei venti anni in cui l’esigenza sembra solamente quella di guardare avanti rispetto al presente; ma quando si è giunti ai trenta l’esigenza s’inverte, guardandosi indietro verso un’età che non esiste più… Questa sensazione non è da considerarsi come il timore prematuro della vecchiaia, bensì la consapevolezza del trascorrere del tempo, la malinconica affermazione che il sopravanzare dei giorni sia da demerito alle proprie scelte; l’autunno infatti, sembrava rievocare il freddo ritorno del passato, il riepilogo umorale di giornate piovose, di lunghi frangenti in cui la solitudine pare espandersi come un’onda d’incertezze. Così inevitabilmente percepivo il mio status single come una sconfitta di cui vergognarsi, specie ad ogni cerimonia nuziale, cui sempre più spesso venivo invitato da coetanei in piena svolta di vita; nei mesi avvenire infatti, avrei dovuto assistere a diversi banchetti di amici che in un modo o nell’altro, restringevano il cerchio della mia sopravvivenza ad un sempre più sparuto gruppo di consimili. Di certo non m’influenzava troppo l’idea di non avere tra le mani un matrimonio come protagonista, bensì la prospettiva che il presente prossimo fosse influenzato da scelte d’accomodamento, da donne che sempre più svuotavano di senso la mia capacità di sedurle. Forse la mia idea di vita necessitava del passaggio fondamentale di un camaleontico mutamento di scelte che possa determinare una tregua con me stesso e un approccio diverso con gli altri; forse il protrarsi di questa impasse, la crescente sensazione di disamore da tutto era un purgatorio da scontare, prima di esplodere nel benessere di un’esistenza di cui ci si senta protagonisti e non spettatori. A fronte di tali considerazioni, speravo di convertire l’ultimo scorcio di vita in comune con un periodo di transizione, che potesse metabolizzare le fondamenta di un progetto d’esistenza più ampio e solido. Desideravo dunque una stabilità emotiva duratura che determinasse, nel mio stesso approccio alla vita, la certezza di non soffrire pentimenti. Riguardo alle donne ad esempio, avevo maturato l’idea che la disperazione di sentimenti-perditempo non riuscissero più a coprire il disagio di un’esigenza d’appagamento. Ad oggi il vestirmi di propositi mutevoli supporta la dolorosa scelta di giungere finalmente ad un bivio, ove stabilire il metro nuovo dei miei giorni. Poche settimane sarebbero bastate, prima di realizzare concretamente la dismissione sofferta della mia azienda e con essa il magazzino di angosce e frustrazioni che conteneva al suo interno.
Dopo aver apposto l’ultima firma che ancora mi vincolava al patrimonio di pensieri, un’immediata sensazione di libertà si era impadronita di me, esente per una volta, da quei dubbi leciti di una volontà di tornare indietro, di ripristinare il passato. Sicché davanti ad un presente nuovo, avevo cominciato a ricostruire me stesso nella gestione adeguata del mio tempo e della mia identità. Ho cominciato a guadagnarmi la costanza della scrittura, impadronendomi presto di quella nicchia di desideri che realizzavo solo leggendo le mie parole o quelle scritte dagli autori d’ogni epoca. Quanto alle prospettive, riponevo sino al termine della coabitazione la pace nevrotica di ciò che sarebbe avvenuto, delle realizzazioni future e di un nuovo lavoro…

Giunti al termine della “stagione del salice”, l’abbandono della villa appariva come un risveglio violento, un sussulto improvviso. Tale sensazione era sopraggiunta immantinente mentre svuotavo il contenuto dei cassetti della mia stanza per trasferirli nella loro naturale dimora; in quei gesti meccanici, mi abbandonavo in pensieri a ritroso che ricomponevano il denso sapore degli eventi, la rievocazione spontanea di un legame metafisico tra gli oggetti e il tempo trascorso. Dalla finestra della mia stanza rimembravo il primo sapore del risveglio sotto un nuovo tetto, accorgendomi allora, di come possa apparire diverso il mattino se al posto dei rumori di strada si ascolti il silenzio della campagna. Così spontaneamente ad ogni risveglio pareva amplificarsi un senso di buon umore, anche di lunedì mattina; poiché il buongiorno sincero dei coabitanti vale mille domeniche di solitario ozio casalingo. Nella colazione poi, ci si coccolava di cortesie tra un biscotto assaporato col caffè e latte e il mesto suono di una stazione radiofonica, commentando la serata del giorno precedente o le aspettative di un nuovo appuntamento con una commessa di banca. Oltre a ciò, si univa il senso solare dei giorni, la calura invitante delle mattine, la frenesia di uscire presto dal lavoro per tornare nuovamente in villa, essendo attesi dall’inaugurazione di un tuffo nel mare di fine giorno. Forse era proprio l’insistenza gradevole delle domeniche mattina in spiaggia, o quei sabato pomeriggio trascorsi tra gli scafi del circolo velico, a convincermi che il benessere di una persona passi attraverso la realizzazione di un qualcosa che renda libero il proprio spirito. Dunque la successiva scelta di dedicarmi al settore nautico, alla compravendita di barche ed accessori, aveva certamente le sue fondamenta in questi mesi estivi: poiché mai avrei supposto una tale deriva di competenze lavorative…
Anche Mauro era cambiato, esigendo minori distrazioni dal solito tran tran: forse perché le nevrosi lavorative avevano ceduto il passo ad una sensazione di ritrovo con se stesso e con Giovanna, oppure perché i problemi con Anita e le mie successive considerazioni, le accuse pacate di leggerezza, lo avevano indotto a frenare le sue borie da scavezzacollo. Di certo aveva vissuto la nostra comunione d’esistenze come una stagione d’elezione, specie quando si felicitava delle soddisfazioni culinarie di una nuova ricetta della domenica, grazie ai complimenti degli invitati di turno.
Anita invece era stata una rivelazione, una donna che certamente non aveva mutato il suo essere, ma che aveva scoperto la possibilità di condividere con gli altri delle emozioni dapprima represse in barriere di pregiudizio e timidezza. Certo, reputo innegabile l’accrescersi ulteriore di una mesta simpatia nel corso della stagione; eppure abbiamo perso le tracce l’uno dell’altra, dispersi tra le consuetudini quotidiane ed i conflitti interiori, del tutto incompatibili con le nostre vertiginose aspirazioni.
Infine il sottoscritto, liturgicamente compromesso dalla scelta di rievocare in queste pagine l’atmosfera unica di un tempo perduto: la gioia interiore di scrivere parole che inconsciamente desideravo fissare come un tesoro ritrovato in fondo al mio essere, come un’arte che ancora non sapevo di possedere… Tuttavia nel trascorso di troppi mesi, rimpiango l’assenza di quell’intima comunione d’esistenze che nell’incrocio di idee, sentimenti e trasporti emozionali, ha arricchito di germogli, il salice interiore delle mie stagioni.

maggio 2005 – giugno 2006

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