lunedì 23 luglio 2012

Siracusa ed il suo territorio, devastazione. Di Giuseppe Fava (1925-1985)


"Rubo" da internet un articolo significativo sulla storia recente di Siracusa scritto dal grande Giuseppe Fava con un piglio letterario e una bellezza descrittiva struggente. Chiedo venia per gli errori di battitura...


Ogni volta arrivo a Siracusa per parlarne male, l’animo gonfio di amarezza, delusione collera, disprezzo, e tutte queste cose ogni vola mi si il languiscono dentro e via via scompaiono per lasciare il posto alla tenerezza. Sono nella condizione umana di chi ha amato una donna, e la credeva carica di dolcezza, di languori, di malinconia e candore, e poi invece l’ha conosciuta traditrice e sporca, un poco ruffiana, preda di chi la pagasse di più e tutto il sentimento gli si è volto in odio, intenzione di trovarsela davanti e sputarle in faccia. E invece non è possibile poiché Siracusa è la mia adolescenza, cioè quell’età straordinaria e incantata dell’uomo quando, dalla fanciullezza si trascorre in un lampo alla gioventù, e improvvisamente le cose della vita appaiono tutte in una volta, proprio la vita si spalanca dinnanzi come se il tuo piccolo orizzonte fosse stato finora di carata e questa carta si stracciasse per tutta l’altezza del cielo e delle montagne, e di là apparisse un cielo veramente senza fine e montagne mai viste e città misteriose da conquistare: il piacere, l’amore, la libertà, la bellezza, la forza.

Così io fui a Siracusa in quei tre anni essenziali della mia esistenza e pur rivedendola ogni volta sfigurata, vecchia, devastata, con tutte le rughe che sono diventate piaghe, con tutti gli schifosi belletti, carne guasta, io vedo soltanto la ragazza che conobbi. Anzi soltanto il ragazzo che ero. Guardo la costa di Scala Greca e tuttavia non riesco a vedere i palazzi osceni che si stendono sul pianoro, gli orribili casermoni che schiacciano il promontorio, ma vedo soltanto la riva candida e deserta che conobbi, lo strapiombo bianco sul mare, e il mare così pulito, così trasparente e candido quel tratto si chiamava “l’acqua ‘e palummi”. Le rocce del fondo erano bianchissime, così frastagliate e taglienti che, nuotando sott’acqua, non potevano essere sfiorate, e tuttavia c’era una vegetazione di colori tenuissimi, quasi azzurra quasi rosa o gialla, talmente rigogliosa che stendeva dovunque un tappeto, e dall’alto delle rupi vedevi il disegno delle piccoli valli marine che via via si perdevano al largo. Nuotavi e i pesci ti sbucavano improvvisamente incontro da un anfratto o uno scoglio, migliaia in una volta come un lampo azzurro che ti sfiorava e subito spariva. Ora questo mare non ha più trasparenza, e del resto che potresti guardarci dentro? Pesci non ce ne sono più, le alghe sono morte per sempre, gli scogli sono soltanto lame di pietre annerite dal petrolio.

Cammino lungo il passeggio Adorno. La costa laggiù è devastata da capannoni industriali miserabili, ammucchiati alla rinfusa, depositi di laterizi, piccole costruzioni che sembrano brandelli di bidonville fin sulla riva, mucchi di rottami e spazzature.
La fontana Aretusa ha solo quattro steli di papiri al centro l’acqua della sorgente scorre grigia e deserta verso il mare. Il mare ha strane venature torbide, per tutta la vastità del porto.


Un piccolo piroscafo ansimante scivola verso la darsena, non c’è una barca o una vela per tutto il mare. Tutto è triste, sporco, inerte, e vedo invece questo porto come un lago immobile e azzurro, sul quale idrovolanti bianchi si posavano, con un ronzio da calabroni, le vele bianche e rosse vi correvano accanto, da una riva all’altra, fino alla foce dell’anapo con i boschi di papiri che arrivavano quasi sulla rena. UN bosco di papiri era anche la fontana Aretusa con i cigni che vi galleggiavano e migliaia di cefali d’ogni dimensione che risalivano dal mare per scivolare sui fondali d’acqua dolce. Poco più in là lo strapiombo della costa si affaccia su uno scoglio gigantesco. Ecco, da questo davanzale sul mare l’acqua appariva sempre immobile ed incredibilmente verde, quello scoglio, solcato da muschi e licheni, vi spuntava grigio come la groppa di un animale sottomarino. Bastava una brezza, un impercettibile incrinarsi del mare perché quel fantastico mostro trasalisse e quasi prendesse vita.

Si chiamava lo scoglio dei disperati poiché si diceva che quassù, si precipitassero coloro che avevano patito un tradimento d’amore. Ma in realtà i siracusano favoleggiano sulla loro stessa natura che era invece quiete e delicata, gli amori fatti di piccoli incantesimi, sguardi di occhi neri e l’animo così dolce e mansueto che non sarebbero mai uccisi per amore. La favola era però delicata, e il luogo così appartato e sognante, che era lecito fantasticarvi di grandi passioni. Ora lo scoglio ha perduto tenerezza verde, è la schiena mummificata di una balena. L’acqua grigia senza più erba sul fondo.

L’ufficiale sanitario dott. Mirone, che per alcuni mesi l’anno riveste anche a carica di medico provinciale, mia ha detto, che tutte le acque della costa siracusana sono inquinate da Augusta fino ad Avola: lungo la riva nord per gli scarichi delle industrie, e a sud dalla città per gli scarichi delle fogne. Giù oltre il capo Murro di Porco, oltre la minuscola insenatura Ognina, esisteva un piccolo golfo di bellezza senza eguali per la sua purezza, le colline dell’entroterra, grigie di ulivi, degradavano lievemente verso questo tratto di mare chiudendolo con un semicerchio di mandorleti. E, per tutto questo arco si stendeva una spiaggia di rena impalpabile e chiarissima che rendeva quasi bianca anche la trasparenza del mare. Fontane Bianche.
Non credo che esistesse in tutta la Sicilia un luogo dove il mare fosse altrettanto puro.
Qualcuno vi fece un piccolo stabilimento di baracche, poi un altro fece una casupola, un altro più ricco vi costruì una villa, centro metri più in là un’altra, poi dieci tutte in una volta, poi cento, cinquecento, migliaia.

Case, ville, palazzi, baracche, tuguri, una devastazione selvaggia, ognuno voleva la sua residenza marina quanto più vicina al mare, avvocati, medici, ingegneri, professori, giudici, architetti, commercianti, sensali, appaltatori, piccoli industriali, fu il festival ignobile della vanità borghese, ognun voleva anche che la sua casa fosse più alta e vistosa, con le ceramiche, le piante grasse, i cancelli, il garage, la terrazza, i termosifoni, la riva fu saccheggiata in un baleno, poi la lebbra si estese via via verso l’interno, scomparvero gli ulivi, i mandorli, non c’erano strade, non c’erano fogne, non c’era illuminazione, ma la devastazione sembrava inarrestabile, arrivarono anche i borghesi dall’interno della provincia, casa a Fontane Bianche divenne un distintivo di dignità civile, una forma di nuovo censo sociale, ognuno volle anche una barca, un motoscafo, un fuoribordo.

Sotto ogni casa c’era un pozzo nero per scaricare i rifiuti umani ed il liquame, gli edifici erano così vicino che spesso i pozzi neri si spaccavano ed entravano in comunicazione per crepe e fenditure. Quello che era uno degli angoli magici della costa siciliana venne distrutto. Sopra un termitaio, un viluppo ignobile di cemento; sotto una distesa di sterco che filtrava continuamente verso il mare.

Siracusa era una delle città più gentili e affascinanti d’Europa, aveva la malinconia di Venezia ma una luce più bianca, più alta; aveva il fascino delle città marine dell’Africa, ma era più candida e serena; aveva i resti mirabili del tempo greco, cioè l’investitura di una delle più grandi civiltà umana ed insieme però anche la grazie, le misteriose bellezze del seicento. E’ senza dubbio la città italiana che perduto la più grande occasione civile che, nella vita di una città, passa una volta ogni duecento o trecento anni. Perdonate la similitudine oscena ma soltanto dolorosa: Siracusa è una vecchia puttana sulla quale migliaia di sono accaniti con tutti i loro desideri più turpi, e le hanno contagiato tutti i loro orribili malanni, tutti i veleni. E’ malata per sempre. Il benessere l’ha fatta prostituire, le ha dato la sensazione di avere improvvisamente una ricchezza che non aveva mai conosciuto, e quindi l’ansia, una specie di pazzia, di godere di questa ricchezza prima che essa si palesasse un inganno. In realtà Siracusa era stata sempre povera, Mirabile e povera. Tutto per bene ma un po’ liso, rattoppato, con la malinconia e la dignità proprie dei poveri, i quali però non vogliono che altro se ne accorgano e li compatiscano. Il grande appuntamento mondano erano le feste classiche biennali, “edipo re”, “eschilo”, “euripide”, centomila forestieri che arrivavano con i cappelli di paglia, il re che arrivava con le gambette e si arrampicava al palco centrale sospinto per le natiche da prefetti pallidi di emozione.


Lo stabilimento balneare allo scoglio dei disperati, i bagni al lido Sacramento accanto alla foce dell’Anapo. Ci si arrivava con  i vaporetti bianchi dall’una sponda all’altra del porto, la squadra di calcio che infallibilmente batteva il Catania e rendeva felice una città, i caffè del vecchi centro, le sale da bigliardo come piccoli bagliori verdi nella straduzze medioevali, la messa della domenica con tutta la bene ordinata e in fila, il vestito scuro, le signore con cappelli a veletta, qualche timida villa sulle colline pietrose a nord dove una volta si estendeva la pentapoli, cinque città tutte insieme, un milione di abitanti, la più grande e potente città del mondo. La povertà, il decoro, la malinconia, i sogni.

Poi improvvisamente arrivò il benessere. Imprevedibile, secondo calcoli e speculazioni e diagrammi operativi a volte sordidi che partivano da migliaia di chilometri di distanza, e che i siracusano nemmeno intuivano. Così d’un tratto arrivò l’industri chimica: le ciminiere, le fiamme, i depositi, le petroliere, lo sviluppo frenetico delle iniziative, i trasporti, i servizi, le manutenzioni, le piccole industrie accessorie, i capitali sempre più vasti affluivano, il moltiplicarsi delle agenzie bancarie, dei posti di lavoro, degli alti salari, i nuovi commerci, i nuovi mercati.
Tutto accadde velocemente nel giro di pochi anni, quel mostro industriale sembrava non dovesse cessare mai di crescere, era una specie di cancro che si gonfiava sempre di nuove cellule per tutto l’immenso golfo da scala greca ad Augusta, un bisogno inesauribile di cemento, mattoni, ferro, asfalto, muratori, carpentieri, impiegati, camion, manufatti, tubi, personale specializzato. Al di là di quella che era la trasformazione ecologica del territorio di cui allora non si aveva nemmeno chiaramente concetto, era una realtà di migliaia di miliardi di cui solo una percentuale andava ai siracusani; ma basava perché improvvisamente una società povera e dignitosa fosse repentinamente stravolta da nuove necessità, ambizioni, avidità, desideri: anzitutto la casa per migliaia e decine di migliaia di immigrati, e per decine di migliaia di indigeni che volevano fuggire dai vecchissimi, traballanti palazzi del centro. E con le case i negozi, i commerci, i servizi, i cinema, gli impianti sociali, le chiese, i teatri, le ville al mare, le automobili, gli alberghi, gli stabilimenti balneari.


In quel tempo Siracusa era quasi tutta concentrata nell’antica isola di Ortigia dove esisteva l’essenziale, le residenze di prestigio, gli uffici, i negozi. Poi c’era la cosiddetta borgata, cioè un’appendice povera, quasi paesana, che arrivava fino al grande tempio si Santa Lucia, alla favolosa Villa Politi, ed alla cavità del teatro greco. Al di là il deserto, cioè un immenso pianoro lungo tutto lo strapiombo della costa, fino al dirupo marini di scala greca. Qui si sarebbe potuta costruire la nuova grande Siracusa, la città più moderna d’Italia, i grandi viali collegati da giardini e piazze,il lungomare panoramico, i centri commerciali e direzionali, le scuole. Era necessaria una mente lucida e, civile che avesse fantasia e amore per immaginare questa nuova splendida città.

Invece tutto accadde orridamente: i palazzi cominciarono a sorgere a mucchio prima ancora che ci fossero le strade, anzi le strade alla fine furono solo budelli vuoti fra un groviglio di palazzi, sempre più alti. Non si lasciò spazio per il verde, perle fognature, per i parcheggi, per i servizi. Nelle città del West, quando arrivava la moltitudine di colonizzatori, qualcuno almeno stabiliva: qua l’ufficio dello sceriffo, là il saloon, da questa parte le stalle per le diligenze, dall’altra la banca, questo spazio l’immondezzaio, quello per il cimitero, quell’albero per impiccare i ladri di cavalli quella baracca per l’ufficio del giudice, laggiù il bordello in modo che non si veda troppo, e al centro la chiesa. In mezzo a tutto una strada larga venti metri con una canaletta perché possano scorrere la pioggia e la pipì dei cavalli. A Siracusa nemmeno questo. Lungo l’ara che dalla zona archeologica sale fino al pianoro di scala greca, è sorta una mostruosità urbanistica. L’industria chimica sulla costa appare un cancro divorante, però concepito secondo misura logica, magari con diligente cinismo. La nuova rete urbanistica di Siracusa è un cancro di pietra e cemento, un ammucchiarsi di cellule impazzite per stupidità. In mezzo a questa definitiva devastazione sta per essere oramai soffocata anche la cittadella dello sport, l’unica autentica opera civile di livello europeo che Siracusa si sa saputa dare in questi ultimi anni. Ma in realtà fu il piccolo sogno realizzato da un uomo solo, Concetto Lo Bello, e quando in cima alla collina si levò la sagoma esile del trampolino, lo accusarono persino di avere deturpato gli orizzonti fatali di Ortigia. Già alle spalle centinaia di ruspe scavavano selvaggiamente fondamenta e fondamenta, spesso così vicine che gli ordigni si azzannavano come bestioni.

il siracusano vive in una città dove non esiste un albero, e per percorrere tre chilometri in auto ci vuole mezz’ora, e non c’è un posto dove archeggiare la vettura notte e giorno, e la sera quand’è scirocco l’aria diventa amara, si può masticare, gravida di infestazioni di particelle chimiche, ossidi, fluoro, azoto, zolfo, carbonio, polveri che svaporano da quelle migliaia di luci, quelle decine di altissime fiamme che per tutto l’arco marino fino ad Augusta. Il mare di Siracusa, il mare di tutte le leggende, il più trasparente e chiaro del sud, è quasi morto oramai. La vecchia isola di Ortigia con le stradine segrete, i suoi palazzi incomparabili, il rumore del mare, l’odore profondo del mare in ogni vicolo, le sue splendide facciate gialle volete verso il tramonto, è stata abbandonata da oramai. Era più malinconica e affascinante della giudecca veneziana, e non c’è più quasi nessuno. Appena cala la sera ogni luce si spegne, le vie diventano prospettive deserte, le grandi piazze sono solo spazi per il vento marino, il duomo con le colonne dell’antico tempio di Minerva, emerge nella luce dei riflettori come un fantasma, anche qui, sa qualche parte ci deve essere qualche giorno della mia adolescenza, ma non lo trovo …  E tuttavia la nostalgia mi rode, continuerò a cercare ….

2 commenti:

  1. Grazie per avere riproposto questo grande articolo. Fava espande le considerazioni amare fatte da Vincenzo Consolo e torna su quel tratto di costa, presso Augusta, dove comparve Ligea, la sirena di Tomasi di Lampedusa. Un grande pezzo, bello letterariamente e approfondito sociologicamente: scritto da un maestro!

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  2. Grazie a te per averlo letto e apprezzato. Condivido, Fava è un maestro!

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