Passeggeri e guardia addormentati al banco controlli |
Lunedì 27 aprile
Mi sono svegliato verso le sei del mattino mentre la maggior parte dei passeggeri era ancora immersa nel sonno. L'aeroporto così silenzioso sembrava un luogo surreale e a quell’ora era ancora possibile vedere gli effetti della notte: chi aveva trovato posto su di un tavolo, chi aveva invaso l'ufficio informazioni (mai visto in uso) con i suoi comodi divanetti, poi c’era un addetto aeroportuale che dormiva con la testa poggiata nel banco check-in, un passeggero che aveva trovato posto nel rullo dei bagagli e una guardia giurata in pieno sonno in una delle porte di accesso ormai priva di qualsiasi controllo.
Un addetto dell'aeroporto addormentato sul banco del check-in |
Un passeggero che ha trovato posto tra i nastri delle valigie |
Il collegamento col resto del mondo
Nel frattempo ho pensato ad un’ottima soluzione per ricaricare ancora il cellulare (un’ossessione), attaccandomi alla presa USB di uno dei computer del check-in. Ciò che altrove sarebbe stato severamente vietato a Kathmandu si poteva fare… In quei minuti avevo anche potuto chiamare casa, sfruttando il fuso orario e una connessione che per poco tempo ancora permetteva di svolgere qualsiasi compito di collegamento col mondo nonché la lettura di un quotidiano online, cui finalmente potevo accedere, mi sembrava un modo per capire in quale situazione fossi: appena lessi i titoli dei quotidiani web italiani rimasi come intimorito. L’enfasi sulla conta dei morti giunta ad alcune migliaia mi dava la proporzione del dramma in cui ero immerso, senza tuttavia percepirla nella mia esperienza del momento.
Un ottimo modo per ricaricare il cellulare: tramite il computer del check-in |
Di nuovo in fila
Di lì a una mezz'ora la fila davanti al banco dei check-in cominciava a ricrearsi, così messi gli zaini su di un carrello ci siamo posizionati ai primi posti. Ma l'attesa divenne ancora lunga e quando si sono fatte le dieci del mattino ho cominciato a sbroccare. Perché nessuno ancora si degnava di darci delle informazioni sul volo? A questa domanda una signora danese, in fila come me, candidamente mi disse che il check-in si sarebbe aperto di lì a poco perché informata da un addetto dell’ambasciata. Appunto l'ambasciata, che fine aveva fatto l'ambasciata italiana e la Farnesina? Dall'Italia mio fratello aveva avvertito l’Unità di Crisi della nostra situazione e aveva anche registrato il nostro nome sul sito del Ministero degli Esteri. Ma nessuno si era fatto ancora vivo...
Dopo tre quarti d'ora è arrivato il personale Etihad che posizionandosi in un banco diverso da quello del giorno precedente, dato che l'altro nel frattempo era stato occupato da un'altra compagnia che a fatica riusciva a far passare i suoi passeggeri per causa nostra. Nell’aprire le operazioni di check-in, prevedendo la perdita della fila, il mio amico ha chiesto a uno dello staff di rispettare la fila già formatasi da diverse ore. In mancanza di un vero ordine, come avviene in tutti gli aeroporti del mondo, la pressione dei passeggeri impediva persino di allontanarsi dalla fila al termine delle operazioni, se non scavalcando il banco check-in (passando quindi dall’altra parte) e facendosi largo tra gli addetti che spostavano le valigie sul nastro.
Gente in fila per fare il check-in |
Salire le scale col biglietto in mano e superare l'ennesimo livello sembrava il raggiungimento di un altro privilegio. Adesso, superato l'ultimo controllo, si entrava a far parte della schiera di “coloro che avevano una buona certezza di partire”. Ma anche qui abbiamo ben compreso che la partenza non sarebbe stata così facile. Dai finestroni dei gates si vedevano gli aerei militari che sbarcavano i primi aiuti per il Nepal, mentre quelli di linea stentavano ad atterrare. E mentre giungeva un grande aereo militare cinese con tanto di parata che ci ricordava d'essere in una parte di mondo dove gli americani non sono i primi, ogni tanto qualche velivolo commerciale in grande ritardo, atterrava nel giubilo generale.
Solo nel tardo pomeriggio, a sorpresa, il nostro aereo è arrivato per decollare con un ulteriore ritardo, quando anche le operazioni di imbarco s’erano chiuse da mezz'ora. Ma ormai il peggio era passato e da quel caos infinito che costituisce il Nepal ci stavamo finalmente allontanando…
L'ultima sorpresa di questa estenuante Odissea ci è giunta al banco transiti di Abu Dhabi, dato che a Kathmandu il personale non se l'era sentito di farci il biglietto completo sino a Roma. Una robusta signora col velo islamico ci ha detto che il nostro volo era pieno e che il rientro era spostato di altre 24 ore. La compagnia però ci garantiva un albergo, la colazione e il pranzo nonché un autista che avrebbe curato il trasferimento. Quale differenza di trattamento! A Kathmandu eravamo stati trattati da barboni, senza acqua e assistenza, dormendo per terra e al freddo e qui ci offrivano subito una bevanda, una bottiglia d'acqua e persino un biglietto per prendere un caffè prima di andare in albergo.
Militari cinesi con i primi aiuti |
Il (non) ruolo della Farnesina
In tutto questo marasma la Farnesina che ruolo ha avuto? Un semplice SMS con la richiesta di informazioni sul mio status mi è arrivato solamente quando ero fuori del Nepal, e forse anche la mia pronta risposta aveva fatto scalare il numero dei quaranta italiani che andavano ancora contattati: come affermavano gli articoli dei quotidiani. Sarebbe bastato però che un funzionario del consolato (dato che in Nepal non abbiamo un'ambasciata) si fosse presentato in aeroporto per scartare rapidamente tutti gli italiani presenti e prendere informazioni su coloro che ancora mancavano. E poi c'è la rabbia per ciò che non si è fatto, confrontando l'attivismo di altre ambasciate. Una ragazza inglese pur attendendo come noi da due giorni, a Kathmandu ha dormito in ambasciata assieme ai tanti cittadini di Sua Maestà e ha potuto comunicare a casa con i parenti senza troppi problemi.
Su questo calvario ci sono degli elementi su cui oggettivamente c'è poco da lamentarsi, la situazione era di estrema emergenza e certamente c'era chi stava molto peggio di noi. Ma il compito di una compagnia aerea è quello di considerare i propri clienti, come avvenuto purtroppo solo ad Abu Dhabi mentre quello di un consolato è quello d'essere presente e rendersi utile.
Sono rientrato a casa con tre giorni di ritardo, stanco e con un'esperienza incredibile da raccontare. Per quanto tutto sia assurdo, l'importante è essere qui a poterlo documentare. Colpe e ritardi alla fin fine fanno parte della nostra inefficienza italiana, così come il caos dell'aeroporto e del personale di Kathmandu fanno parte della mentalità propria di quel paese e di coloro che ci vivono.
Conclusioni
Questa esperienza così importante, sul momento l’ho digerita come nulla fosse. Sentivo di aver orgogliosamente mantenuto saldi i nervi senza mai perdere la ragione su cosa avrei dovuto fare: forse perché non mi sono mai trovato di fronte alla percezione di pericolo di vita. Tuttavia nei giorni successivi al mio rientro in Italia, quando con calma ho rivisto le immagini devastanti dei luoghi in cui ero stato, qualcosa in me si è mosso. Riflettevo sul fatto che pochi giorni prima eravamo saliti sul tempio di Maju Deval a Durbar square, senza poter immaginare che la struttura in legno che sorreggeva il tetto a triplice spiovente sarebbe poi crollata su persone che, come me, vi avevano trovato un ottimo punto di osservazione. A Bhaktapur invece un video mostrava il crollo dei templi nella piazza principale, mentre le altre immagini facevano vedere le stradine ridotte un cumulo di macerie. La mia incolumità è stata senza dubbio una questione temporale, in quanto è difficile immaginare un modo per scappare dai ripidi gradini del Maju Deval o allontanarsi incolumi dalle strette vie di Bhaktapur. A Kathmandu mi sarei potuto trovare in una delle strette vie del centro dove, prima di incontrare una piazza sufficientemente grande, si può essere costretti a percorrere diverse centinaia di metri.
La sincronicità
Poteva accadermi di tutto e per fortuna non mi è accaduto nulla di grave, forse a causa di un aneddoto junghiano. Alcuni giorni dopo il mio rientro un mio amico mi aveva avvertito che alle ore 23;45 ci sarebbe stato un documentario sul terremoto del Nepal. Così decisi di vederlo lasciandomi, al termine della visione, un’ondata di dubbi come quelli su esposti. Poi un’intuizione: il tassello mancante delle mie riflessioni dei giorni passati era l’appuntamento con Clara un’ora prima del terremoto. Su quest'incontro c’è un’evidente coincidenza significativa, o per usare una parola junghiana, una sincronicità. L’avevo conosciuta casualmente a Roma, poi l’ho rivista mesi dopo a Catania per un’incredibile coincidenza, dato che non ero un habitué di quel contesto; durante il mio soggiorno in Nepal poi scoprii che anche lei era nel paese, così ci siamo incontrati più volte sino al giorno del terremoto… A mio avviso questo incontro mi ha “salvato” la vita, poiché mi sono istintivamente affidato a lei come una sorta di angelo custode.
Questa curiosa sincronicità fa riflettere, così come fa riflettere il gioco numerico che c’è dietro allo svelamento di questa intuizione. È stata la visione del documentario infatti a determinare tale interpretazione, documentario il cui orario così inusuale le 23;45 coincide con le 3 ore e 45 minuti di differenza col fuso orario italiano rispetto al Nepal. Inoltre, proprio nello stesso giorno del documentario avevo deciso di eliminare delle fotografie dal cellulare, tra cui un’immagine che rappresentava lo schema delle nostre tappe quotidiane in Nepal. Lo avevamo disegnato il 20 di marzo, cioè il 20/3 (il 23 dell’orario), quando avevamo deciso definitivamente tutto ciò che riguardava il nostro viaggio.
Questa spiegazione (soprattutto quella strettamente numerica) risulterà per molti lettori fin troppo forzata e priva di oggettività, frutto semmai di una coincidenza. Dico subito di non pensare che la mia versione sia necessariamente la più giusta perché potrebbe essere falsata dal mio coinvolgimento emotivo nella vicenda, tuttavia posso senza dubbio affermare che questo fatto ha inciso sul modo con cui oggi interpreto le coincidenze significative: molte volte la vita o la morte di una persona è stata dettata da una coincidenza che sembra dimostrarci come la nostra esistenza sembra essere appesa al filo sottile delle tre Moire.
Inoltre dopo alcuni mesi dal terremoto, nell’agosto 2015, io ed Enrico in Olanda abbiamo incontrato una persona che lavorava in un’agenzia di viaggi. Il discorso è finito inevitabilmente sul Nepal e anche lei ha detto che sarebbe voluta andare in Nepal ma aveva avuto un disguido: era partita lo stesso giorno del terremoto con un volo Etihad ma a causa del sisma il volo è tornato indietro. Si trattava dello stesso volo che ci avrebbe condotti a casa ma che fu subito cancellato quel 25 aprile. Ancora una sincronicità che ribadiva con forza il concetto: non dimenticarsi di ciò che è accaduto.
A fronte di questa incredibile esperienza, ciò che sino a ieri consideravo un caso, adesso mi appare come il segno di ciò che banalmente viene definito come “destino”, ma che potrebbe rientrare coerentemente in un concetto olistico di esistenza. Spiegare le molteplici ragioni che m’inducono a seguire tale idea renderebbe necessaria un’esposizione ben più articolata della chiosa di questo racconto. Posso tuttavia affermare che è proprio tale argomento su cui concentrerò le mie ricerche personali nei mesi avvenire, se non altro perché le stesse sincronicità sembrano volermi ricordare la direzione da intraprendere.
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