sabato 21 novembre 2015

Nepal 2015: Kathmandu (secondo giorno)


Venerdì 17 aprile

C’è una caratteristica di questo angolo di mondo che è poi la medesima dell’India e forse anche del Bangladesh, quella di unire assieme splendore e squallore. Questa è la sensazione provata quando quella mattina Haren ci ha guidati presso il tempio di Pashupatinath. Questo grande complesso costruito dagli induisti si trova non troppo lontano dall’aeroporto di Kathmandu, in una posizione un po’ decentrata. Per arrivarci infatti è necessario un taxi a meno che non si voglia camminare per quasi un’ora rispetto al centro.


I contrasti
Dicevo del contrasto, quel contrasto legato alla fascinazione architettonica e devozionale dei nepalesi ma anche allo squallore. La sporcizia, il degrado di certe strade e di troppi edifici che sembrano essere il filo conduttore di questo paese. Considerando questi elementi che spesso ritrovo anche in Sicilia, mi rendo conto di come esso caratterizzi l’esistenza stessa di un popolo. Dalle nostre parti ci sono standard di vita indubbiamente più alti, ma è anche vero che la cura verso i luoghi pubblici lascia fin troppo a desiderare. I rifiuti a bordo strada spesso raggiungono livelli intollerabili, eppure sono parte di noi. La stessa superficialità con cui le città vengono gestite, l’accumulo dei problemi di traffico o di decoro urbano se non di criminalità, rappresentano l’anima di un popolo. Se esistono ai livelli che conosciamo essi sono una componente di noi stessi. Anche la qualità delle strade, per esempio o dei trasporti pubblici si lega alla coscienza dei cittadini e quindi a quella degli amministratori che pretenderanno o meno un certo servizio. Così come la cura nell’informare i cittadini su di una deviazione in corso a causa di lavori, o l’esigenza di avere l’illuminazione pubblica quasi in ogni via, rappresentano quel limite oltre il quale non siamo disposti a scendere. Ebbene, in un paese come il Nepal questi limiti sono indubbiamente più bassi. La poca pulizia delle strade è più o meno tollerata, l’assenza di strisce pedonali, di bus efficienti, di illuminazione o di servizi al turista manifestano concretamente ciò che sono i nepalesi e fin dove tollerano. Le vie di Kathmandu e lo stato in cui versa il tempio di Pashupatinath è la rappresentazione chiara di tutto questo, come un quadro che mostri tutti gli aspetti di un movimento artistico su cui poi è possibile intavolare un discorso critico.
Cremazione nel tempio di Pashupatinath
Il governo nepalese da qualche anno ha compreso che dai siti turistici è possibile ricavarne dei soldi, cifre che superano anche gli standard europei. Per entrare infatti abbiamo pagato l’equivalente di 12€, soldi che sembrano arrivare nelle tasche del governo senza una reale ricaduta. A fronte di un biglietto caro per il Nepal e di cifre importanti, nessuna manutenzione viene portata avanti all’interno della struttura che in molte parti risulta parecchio degradata. Ciò è un vero peccato anche perché il patrimonio culturale tende da sbriciolarsi sotto il peso del tempo, in assenza di un piano di restauro. 


Pashupatinath 
Il complesso di Pashupatinath è utilizzato per la cremazione dei morti induisti della capitale e per le aree vicine. Il tempio è assai famoso e richiama molti pellegrini anche per altre funzioni religiose. Le cremazioni avvengono al bordo del fiume Bagvati, un fiume ritenuto sacro un po’ come il Gange. Qui vi sono degli spazi appositi chiamati ghat dove si posizionano le pire di legno per cremare i corpi. I corpi vengono avvolti in un manto rosso-arancio e portato a spalla. I parenti si vestono di bianco in segno di lutto e offrono fiori e incensi per imbastire la cerimonia. Il legno ovviamente va acquistato e per i più poveri viene comunque garantito dalle associazioni induiste. Pertanto nessuno muore senza una degna cremazione.
Quando abbiamo eseguito la visita noi vi erano due pire accese ma con la legna quasi del tutto consumata. Il fumo spandeva nell’aria una puzza di carne bruciata, un po’ come in una grigliata. Diversi turisti, come noi, visitavano il luogo mentre alcuni nepalesi si sedevano nei gradini per osservare o semplicemente per trascorrere il tempo. Accanto ad una pira, con le mani intente a rovistare il fondo del fiume, un ragazzo cercava oggetti preziosi da recuperare; questo perché nei corpi a volte si mantengono anelli o collane e il corpo una volta bruciato completamente e divenuto ormai cenere viene gettato nel fiume.
Un ragazzo accanto alla pira della cremazione cerca preziosi tra le acque del Bagvati
Il corpo di un defunto pronto per la cremazione
All’interno del tempio ho potuto vedere per la prima volta dei sadhu, ossia degli asceti induisti. Si tratta di religiosi che per svariate ragioni scelgono di condurre una vita di rinunce. Sono riconoscibili per i capelli lunghi, l’aspetto trascurato, i colori spalmati sulla pelle ma anche perché sono tra i pochi a chiedere espressamente dei soldi per una fotografia o una tika. La tika è un segno rosso in fronte rilasciato da un religioso, una sorta di benedizione che un sadhu concede spontaneamente in segno di benevolenza ma che in molti casi è un modo per arrotondare soldi. Proprio perché sapevo di questa caratteristica venale di troppi sadhu non mi sono mai avvicinato a loro, proprio per non farmi “fregare”.
Alcuni templi di Pashupatinath
Il resto del tempio è grande e si estende all’interno di un parco alberato con altri templi ed edifici fatiscenti. Tuttavia quella parte è anche frequentata da giovani, come una coppia che passeggiava e altra gente che vendeva delle bevande o prendeva il fresco all’ombra degli alberi. E poi c’era l’altra caratteristica di quel luogo, le scimmie: ve n'erano tante e si arrampicavano nei templi, raccattavano cibo o rovistavano nei rifiuti.
Il tridente di Shiva
Durbar square
Al termine della visita, assieme ad Haren, siamo andati a Durbar square. Per entrare anche in questo luogo i turisti dovevano pagare una tassa che abbiamo evitato grazie alla nostra guida. Girando per stradine interne infatti è possibile evitare l’ingresso ordinario ed entrare comunque nell’area monumentale. A quell’ora, per quanto la giornata fosse uggiosa, era possibile godere non solo dei monumenti ma anche dello scorrere della vita quotidiana.

Questo, forse, è tra i pochi luoghi di Kathmandu dove si cammina a piedi senza essere infastiditi troppo dal traffico. I pochi mezzi che passano sono dei risciò caratteristici perché colorati come dei carretti siciliani. Il primo tempio che abbiamo visitato era quello di Kasthamandap, interamente in legno con i tre tetti. In passato era stato usato come rifugio dei pellegrini (difatti anche noi ci siamo rifugiati dalla pioggia che improvvisa è scesa sotto forma di acquazzone), poi è stato trasformato in un tempio dedicato ad un asceta del XIII secolo. Dall'edifico, aperto su tutti i lati, è stato interessante fotografare la vita che si svolgeva accanto: diversi negozianti vendevano cibo e verdure con la solita flemma nepalese molto rilassata. Quando la pioggia è cessata, Haren ci ha lasciati soli perché aveva un impegno, così noi abbiamo proseguito la visita. Quella piazza era ricchissima di dettagli e sensazioni, dai comportamenti della gente attraverso i gesti religiosi sino all’osservazione delle centinaia di simboli induisti di difficile comprensione. 
Durbar square dal Maju Deval
Andando avanti siamo giunti del cuore dell’area. Davanti a noi c'era un edificio bianco in stile europeo chiamato Gaddhi Baithak del 1908, in forte contrasto con gli splendidi templi. Abbiamo quindi deciso di salire sul Maju Deval, un tempio dedicato a Shiva molto alto a causa di una base piramidale di nove gradoni piuttosto ripidi. Il tempio è del 1690 e la parte superiore è interamente in legno con i tre tetti sui cui pilastri sono scolpite delle figure. Da quel punto era molto bello osservare l'intera piazza e percepirne l'atmosfera decadente. Negli ultimi gradini i nepalesi amavano sedersi per trascorrere il tempo. Molti giovani in gruppo scherzavano tra di loro o semplicemente osservavano gli altri. 
Uno scorcio di Piazza Durbar
Rappresentazioni tantriche di un tempio
Oriente e occidente
Risulta difficile elencare tutti i templi e i monumenti della piazza, ma di certo mi hanno colpito le famose figure tantriche scolpite nel legno dei templi dai gesti espliciti che colpiscono chi come noi ha un concetto della sessualità atavicamente represso dal senso della colpa; è un discorso che ho già espresso raccontando del mio viaggio in Giappone, la sostanziale differenza tra oriente e occidente sotto questo aspetto. Il cattolicesimo ci ha abituati da delle regole e al senso della colpa che si tramuta in peccato. Nella visione orientale invece tutti gli aspetti della vita vengono visti in maniera naturale, come parte dell’essere. Semmai la sessualità o gli altri “vizi” vengono visti come un qualcosa da superare per raggiungere un’elevazione interiore. Il concetto stesso di elevazione dell’individuo poi è continuamente ribadito delle architetture induiste o buddiste attraverso i tre (o più) tetti dei templi: per non parlare degli stupa dove sono distinguibili chiaramente i dodici cerchi concentrici di cui parlerò diffusamente più avanti. Le religioni orientali, quindi, richiedono all’individuo un’elevazione per se stessi e per gli altri, una strada percorribile secondo la propria coscienza individuale e il karma. 
Bhairava a Durbar square di Kathmandu
Bhairava
In uno degli angoli della piazza c’è un bassorilievo di Bhairava, una delle rappresentazioni di Shiva, detto anche il terribile o lo spaventoso, per il suo carattere distruttivo. Esso viene rappresentato d’aspetto terribile appunto, con quattro braccia e una corona di teste o teschi umani, solitamente accompagnato da un cane. Quello che avevo davanti era rappresentato con sei braccia e il suo volto sembrava richiamare quello delle terribili divinità azteche o maya. I simboli hanno tutti un significato: il tridente di Shiva (essendo una sua manifestazione), la spada, la coppa e la testa di Brahama (in quanto secondo una leggenda Shiva nell’aspetto Bhairava avrebbe tagliato la testa di Brahama). 
Ciò che mi stupiva era la devozione popolare verso una figura che apparentemente sembra demoniaca. Ma seguendo le parole dello studioso Raffaele Torella si chiariscono molte cose: «Bhairava, che è la forma terrifica di Shiva, terrifica non in quanto vuole spaventare a tutti i costi ma perché il suo essere terrifico rappresenta la cifra dello stravolgimento di tutte le barriere che ti metti davanti, quindi tu tendi a farti una vita fatta di piccoli steccati di etichette, questo è bello questo è brutto, questo è buono questo è cattivo, arriva Bhairava nella sua forma terribile e ti travolge tutti questi steccati che ti sei fatto intorno, non lo fa per farti un dispetto ma al contrario lo fa per farti un piacere, per farti mettere al centro della realtà e non farti restare una specie di osservatore e di qualcuno che prende atto di come sono fatte le cose, sei tu che fai le cose, sei tu che dài a una cosa l'etichetta di puro e di impuro, quindi non c'è niente in sé che sia puro o impuro.» Sicuramente questa divinità, il cui culto è abbastanza sviluppato in Nepal ha anche altre attitudini come quella di indurre il fedele ad andare oltre le cose anche con una certa violenza per ottenere un’elevazione. Lo studio delle divinità induiste, in fondo è l’approfondimento di aspetti che dovrebbero indurre ogni individuo ad un miglioramento. La cultura e la religione induista sono certamente distanti da noi, ma posseggono la forza di una ricchezza sapienziale talmente elevata da rendere necessario un confronto con esse.
La corte interna dell'edificio della kumari
La kumari
Siamo anche entrati nell’edificio della kumari. Al suo interno vi è una corte dove in realtà non si può vedere nulla se non delle sculture in legno delle travi e qualche altra decorazione. Il vero senso di questo luogo risiede nell’importanza religiosa che ha la kumari ha nella società nepalese. Essa viene considerata come la dea vivente Taleju, una dea che secondo diverse tradizioni aveva dei legami con il re Jayaprakash Malla, l’ultimo della dinastia Malla. Vi sono diverse leggende per cui il re avrebbe fatto infuriare la dea che per ripicca avrebbe costretto il monarca a sottostare alla figura della kumari. La kumari infatti è in realtà una bambina scelta tra le caste newari buddiste del Nepal. Il processo di selezione è quanto mai complesso e richiede ben 32 requisiti da assolvere. Le bambine rappresentano quindi la purezza femminile, difatti kumari significa vergine, e alla prima secrezione mestruale viene deposta, essendo entrata nella pubertà. 
La vita della kumari non è affatto semplice, dato che è prescritto che resti impassibile e non si distragga, soprattutto durante le cerimonie. Il suo ruolo la rende una dea e come tale è venerata. L’importanza è tale che sino a quando in Nepal vi era la monarchia vigeva una cerimonia annuale dove il re si sottoponeva alla sua benedizione, considerata fondamentale per la sopravvivenza del regno. Proprio tale aspetto che probabilmente è mutato da quando il Nepal è diventato una repubblica (ricordo che nel 2001 vi fu la famosa strage nel palazzo reale dove uno dei membri sterminò l’intera famiglia reale), mostra quel legame tra il potere temporale e quello religioso. Le kumari infatti venivano scelte anche per la fedeltà della famiglia alla casa reale e il fatto stesso che una figura religiosa induista fosse scelta tra i buddisti, induce a pensare ad una ragione politica di unità nazionale nella figura del re. L’unico mutamento che riguarda la kumari, avvenuto nel 2008, è stato fissato dalla corte suprema nepalese che ha stabilito la possibilità di vivere con i genitori e di andare a scuola. Anche sotto questo aspetto risulta essere interessante, perché non esistendo un’autorità suprema religiosa per gli induisti il cambiamento è avvenuto in seno alle istituzioni civili del Nepal.
La shatkona
La Shatkona
All’interno del cortile della kumari era presente quella che per noi è la stella di Davide ma che nell’induismo è la Shatkona, associato al figlio di Shiva-Shatki, il dio Murugan. Su questo simbolo in effetti vale la pena soffermarsi un attimo perché il suo significato è assai profondo. Per gli induisti l’intreccio dei due triangoli (anche per gli ebrei è lo stesso) rappresenta l’unione del maschile e del femminile: il triangolo verso l’alto e quello verso il basso, l’unione di Purusha (l’essere supremo) e Prakriti (la madre natura). Questa unione duale torna in tutte le culture, il maschile e il femminile, lo yin e lo yang, i due aspetti dell’esistenza che unendosi generano. Questo simbolo era molto presente, ma senza un’adeguata spiegazione (che ho potuto approfondire solo dopo) mi era sfuggito, sul momento, la contestualizzazione e la sua forza evocativa.
Venditori in una strada di Thamel
In giro per Thamel
Dopo piazza Durbar abbiamo proseguito il giro e con questa scusa ci siamo mossi all’esplorazione del centro storico che riserva immense curiosità in ogni angolo. Non è solo affascinante vedere lo stile di vita di questo paese, le case semi-diroccate, i venditori per strada come di una Napoli o di una Palermo del dopoguerra; ci sono mille sensazioni che giungono tutte assieme col rischio di non catturarle tutte. Per strada è bello vedere la varietà di frutta e prodotti, senza che nessun venditore ti costringa a dire continuamente no, di non essere interessati perché la gente è molto rilassata e ciò induce a poter osservare senza seccature: nessuno chiede l’elemosina o ti insegue per due soldi. I bambini a volte giocano davanti la porta di casa senza urlare, salvo sorriderti quando ti vedono passare. Se entri in un cortile interno, presso uno dei vecchi edifici in mattoni rossi, entri in una micro-comunità in cui vieni subito accettato sciogliendo le timidezze con un namaste. È bello vedere un adolescente giocare far rotolare una camera d’aria con un bastone, come si faceva una volta da noi, oppure altri giocare al lancio della pietra sui numeri disegnati per terra (non ricordo neanche più come si chiama questo gioco che facevo da piccolo). E poi certi artigiani che lavorano i metalli con lo scalpellino, tutto rigorosamente a mano o altri che aggiustano gli apparecchi elettrici. Ma ci sono anche coloro che si soffermano davanti ai templi induisti (Thamel ne ha in ogni dove), è bello vedere la vernice che colora le statue degli dei, i fiori per terra dopo un’orazione, qualcuno che passa con la tika (la benedizione) ben incisa sulla fronte. Il tutto accompagnato dal persistente stress dei clacson d’auto che suonano anche senza una reale ragione. E poi quella sensazione di decadenza contrapposta alla modernità di un lampione fotovoltaico a led o degli smartphone che molti giovani nepalesi posseggono. Le mie parole possono descrivere molto poco in quanto la mole di sensazioni, in un luogo come questo, sono troppe e tutto è per noi un qualcosa da scoprire.

Nel frattempo si era fatto il primo pomeriggio, così abbiamo deciso di passare dall’hotel per utilizzare il wifi e sapere se erano giunti dei messaggi. Enrico attendeva il contatto anche con un altro couchsurfer, il quale aveva risposto. Di lì a un’ora sarebbe venuto in hotel, non essendo facile trovare un riferimento diverso a Kathmandu.
Decorazioni newari in un edificio di Thamel
Mandip
Mandip era il secondo contatto a Kathmandu che Enrico aveva ottenuto sempre tramite Couchsurfing. Anch’egli era un ragazzo attorno ai venticinque anni, piuttosto corpulento e dal modo di fare spavaldo. Con sé aveva portato un amico che era l’esatto contrario, magro e di poche parole. Passeggiammo nuovamente in direzione di Durbar square giungendovi nel tardo pomeriggio sempre col trucchetto di giungervi da una via secondaria per evitare il salasso del biglietto turistico. Ci fermammo ancora una volta nello slargo dove il giorno precedente avevamo preso il te con Haren. Mandip invece voleva offrirci una sigaretta, ma nessuno di noi fumava. Sicché sempre con quel suo modo di fare spavaldo chiese all’amico di andare a comprare delle sigarette. L’amico corse e tornò con un paio di sigarette che fumarono davanti a noi: cosa curiosa, in Nepal si vendono ancora le sigarette sfuse…
Li vicino c’era Freak street, la cosiddetta strada dei fricchettoni che negli anni sessanta e settanta era piena di occidentali alternativi dediti all’amore libero e all’uso delle droghe. Oggi non resta quasi nulla di quel mondo, il governo nepalese vieta l’uso delle droghe e nel frattempo anche i fricchettoni sono spariti. Proprio in quella strada, al primo piano c’era un locale in cui ci siamo seduti per ordinare del te. Davanti ad un tavolo abbiamo potuto conoscere meglio i due ragazzi. Essi lavoravano come informatici freelance, creavano siti internet per delle società o dei privati e nel frattempo studiavano all’università approfondendo la materia. Mandip diceva con orgoglio che riusciva a guadagnare bene e sperava d’essere un giorno chiamato da una grande società informatica, proprio come avviene ai tanti giovani indiani di ottime qualità. Io suggerii loro di non abbandonare il Nepal, ma anzi di sfruttare le loro conoscenze per migliorarlo magari creando un’app per la capitale. In fondo il Nepal offrirebbe tantissime opportunità proprio perché nessuno sino ha investito concretamente e i turisti richiedono molte più informazioni sul paese. La loro situazione era molto diversa rispetto a quella di Haren, sicuramente anche sotto l’aspetto economico perché Mandip possedeva l’ultimo modello di iPhone il cui costo va oltre lo stipendio mensile di un nepalese. Inoltre c’era in loro uno spirito diverso, molto più sicuro riguardo al futuro, mentre Haren sembrava non sapere quale strada intraprendere per ottenere un lavoro dignitoso, Mandip era fiducioso che in un modo o nell’altro avrebbe raggiunto uno dei suoi obiettivi. Tuttavia in quelle poche ore che restammo assieme, sia io che Enrico ne abbiamo tratto un’immagine un po’ diversa. Io vedevo Mandip come qualcuno che vuole affrancarsi dalla realtà nepalese, Enrico invece si era soffermato sull’aspetto ambizioso della personalità. Io ero più indulgente, soprattutto alla luce del fatto che anche in questo caso era stato lui a volerci offrire il tè: a ulteriore riprova dello stupefacente senso di ospitalità dei nepalesi. In effetti era anche vera una cosa, il nostro senso del viaggio contemplava la volontà di rapportarci con persone genuine, non contaminate cioè dall’avida bòria dei soldi e Mandip sembrava guardare molto a ciò. 
Una strada affollata di Thamel
Keshab
Quella giornata era diventata assai curiosa perché tutti i nepalesi che avevamo contattati s’erano fatti sentire. L’altra persona che si era resa disponibile era Keshab, un couchsurfer che avremmo dovuto incontrare a Pokhara, la nostra seconda meta. Egli faceva la guida turistica di professione e l’avevo contattato proprio perché aveva un profilo interessante. Egli ci avrebbe fatto fare un’escursione di un paio di giorni tra le montagne, senza tuttavia inerpicarci a quote eccessive. In quel momento era a Kathmandu perché stava accompagnando alcuni amici turchi. Nel frattempo Haren si era liberato e con lui siamo andati in un locale di Thamel per cenare. Purtroppo il luogo non era esattamente ciò che avremmo desiderato perché era un posto molto occidentale, dove anche i prezzi erano maggiori e la qualità del cibo scadente. Anche qui provammo o momo che risultarono non avere lo stesso sapore di quelli assaggiati la prima volta. Poi, avvertitolo, giunse anche Keshab che curiosamente era da solo: i suoi amici turchi erano rimasti in albergo. Ci conoscemmo per quel poco tempo che rimase. Il suo aspetto sembrava avvicinarsi molto a quello di un turco, non solo per la carnagione ma anche per quel volto assai poco “nepalese” nei lineamenti, dato che mostrava degli zigomi marcati. In effetti è anche curiosa questa associazione, dato che egli era stato in Turchia e conosceva il turco: forse qualcosa di sé lo richiamava a quel paese…
Vicolo tra due palazzi
La serata si concluse verso le nove di sera anche perché Kathmandu non offre molte possibilità di svago notturno. Non è un luogo dove i turisti fanno i nottambuli, tutt’altro, i locali chiudono presto e la poca illuminazione pubblica scoraggia anche il piacere di una passeggiata notturna.

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