mercoledì 29 luglio 2015

Quel dibattito sempre troppo parziale sulle stragi in America


16 dicembre 2012

Nell'inevitabile dibattito in merito al proliferare di stragi nell'America di Obama è interessante il contributo de Linkiesta con l'articolo Newtown, cosa accade se il colpevole è il cervello?
L'articolo in questione rappresenta il prototipo di come il problema (e i problemi in generale) vengono affrontati in maniera parziale... La soluzione che suggerisce l'intervistato è la limitazione all'uso delle armi nonché un progresso sull'interpretazione che la scienza dà al meccanismo dei comportamenti antisociali. Ma ciò che l'articolo non valuta è di guardare al problema sotto una prospettiva più ampia.

Se si analizzano le statistiche mediche e sociali degli Stati Uniti negli ultimi cinquant’anni, si evidenzia uno spaventoso peggioramento della qualità di vita. Una qualità che non deve conteggiare il reddito procapite o le ricchezze accumulate, ma la reale felicità dei cittadini (e quindi lo stato psicologico). Negli ultimi anni ad esempio è aumentata la percentuale di persone con problemi di ansie, depressioni e deviazioni varie. È scesa in maniera preoccupante anche l'età dell'insorgenza dei primi fenomeni: un secolo fa era inconcepibile immaginare un bambino depresso, oggi il fenomeno è molto diffuso. Sono anche aumentati i casi di disagio sociale, di famiglie distrutte dalle droghe, dall’alcolismo o affette da semplice incomunicabilità genitori-figli.
In America i mali della vita contemporanea sono più estremizzati, come ad esempio la scarsa solidarietà tra vicini e la sfiducia negli altri; ma anche l'indebolimento delle relazioni sociali, la cura del tempo libero, delle amicizie e del rapporto con i figli. Tutti questi collanti, venendo meno, alterano il normale equilibrio di una società.


L'intero paradigma della società occidentale manifesta i suoi malesseri in atti di violenza spesso emulata da modelli televisivi diseducativi e dall'estrema competizione sociale. La società del duemila infatti non lascia spazio alla riflessione, all'affetto e alla costruzione di rapporti interpersonali stabili e positivi. Ciò che domina è la solitudine, il disagio e l'incomunicabilità proprio a causa del capovolgimento delle priorità nella vita.
Se cento anni fa il desiderio principale di ogni uomo era quello di avere un matrimonio felice e di procreare, oggi è quello di realizzare la propria carriera. Cento anni fa i figli prendevano a modello i padri, oggi i modelli sono quelli televisivi. Cento anni fa i padri educavano i figli, oggi non hanno tempo per dedicarsi a loro. Così come gli anziani possedevano un ruolo nelle famiglie, oggi invece sono soggetti “superati” e spesso abbandonati in un pensionato.

Tutti questi elementi, amplificati e indirettamente alimentati dall'attuale paradigma, non possono trovare soluzione né attraverso la consulenza di psicologi, né limitando l'uso delle armi. Forse questa soluzione arginerebbe il problema, ma la causa di questi mali sarebbe sempre lì, fissa e sempre più evidente. Ciò che bisogna fare, non è piangere le lacrime da coccodrillo come avviene ciclicamente, ma giungere alla consapevolezza che i primi a dover valutare la società che stiamo creando siamo noi stessi. La nostra vita, i nostri figli, i nostri amici e i rapporti che abbiamo con loro fanno nascere il germe di un potenziale emarginato pronto a compiere una carneficina. Quando guardiamo ai nostri valori, alle priorità nella vita, al tempo che dedichiamo a noi stessi e ai figli, ma soprattutto a cosa siamo oggi, forse dovremmo renderci realmente conto quanta parte di colpa abbiamo nella superficialità dei nostri gesti quotidiani.

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