Sabato 25 aprile
Quella che iniziava era la mattina dell’ultimo giorno in Nepal, alle 17 avevamo il volo per tornare in Italia e ormai il viaggio poteva dirsi concluso. Enrico era sfebbrato, giusto in tempo per poter affrontare il lungo viaggio di ritorno. Ci siamo preparati per la colazione sperando di reincontrare nuovamente il gruppo di dottori, ma purtroppo erano già usciti.
Quando siamo tornati in camera ho inviato un messaggio a Clara nella speranza di incontrarci per l’ultima volta, le volevo dare anche un souvenir dalla Sicilia. Nel frattempo mi sono preparato lo zaino-valigia lasciando fuori solo le poche cose che avrei raccolto al mio ritorno. Volevo tornare al centro di Kathmandu anche da solo perché Enrico preferiva fare ancora cautela. Uscendo gli dissi che sarei tornato entro le 14 per poi andare assieme in aeroporto con tutta calma. Ma non sapevo che quel programma apparentemente semplice sarebbe stato stravolto…
Rifeci per l’ennesima volta a piedi le stradine che conducevano allo stupa di Boudhanath onde giungere in un punto dove avrei preso con facilità un taxi per il centro. Vi arrivai che erano circa le 10: in fondo avevo tutto il tempo per girare le viuzze del centro e gustare per l’ultima volta l’atmosfera chiassosa e stimolante della capitale. Estrassi la macchina fotografica con l’intento di fotografare dei volti o degli scorci interessanti come fossi un fotoreporter. Per fare ciò mi servii della mia Lonely Planet che suggeriva un percorso a piedi sino ai pressi di Durbar Square.
Iniziai il tour da Thahiti Tole, una piazzetta in cui ero già passato un paio di volte e sulla destra entrai in un’altra piazza dove vi era lo stupa di Kathesimbhu. Nel frattempo giunse il messaggio di Clara che mi diceva di incontrarci alle 11;30 presso l’hotel Kathmandu, non troppo lontano da dove mi trovavo. Mi soffermai sulla piazza, feci qualche foto, osservando soprattutto un edificio newari sulla destra. Osservai in particolare una raffigurazione del buddha che mostrava le tre fasi della sua vita: la meditazione, l’illuminazione e la morte, il tutto costellato di precise decorazioni su legno. Nel frattempo si avvicinò un signore che a suo modo mi volle dare delle informazioni su ciò che stavo vedendo e sull’edificio. Poi, tipico da venditore vissuto mi disse se volevo vedere dei mandala, così mi avvicinai alla vetrina del suo negozio. Egli ovviamente voleva venderne qualcuno, ma gli feci capire che ne ero semplicemente affascinato e non ero venuto per comprare. Ma egli invece di disinteressarsi a me mi chiese da quale paese provenissi e non appena ebbe la mia risposta mi disse alcune parole in italiano; aveva degli amici italiani e conosceva anche qualche parola, così presomi a simpatia mi invitò ad entrare per mostrarmi qualche mandala. Il suo gesto era genuino, votato probabilmente dal fatto d’aver espresso tutta la mia simpatia nei confronti di questa religione. Egli mi disse d'essere un devoto che credeva nei principi del buddismo, e con pieno spirito di divulgazione dei suoi principi mi ha parlato di alcuni aspetti del buddismo nonché la complessa simbologia di un mandala. È stata quella discussione a farmi comprendere la complessità e la bellezza dei mandala che è da considerarsi una rappresentazione dell'universo, con i suoi gradi di elevazione, i recinti quadrati con le porte cui accedere verso la via della saggezza. Nelle sue descrizioni leggevo un percorso che iconograficamente mi ricordava il viaggio dantesco nei mondi superiori per cui è possibile accedervi solo attraverso un percorso di purificazione e consapevolezza. Mi intrattenne per un'ora circa, poi dovetti congedarmi da lui ringraziandolo di cuore per le sue spiegazioni e la sua pazienza, per me fu un sorta di regalo sul finire del viaggio.
Decorazioni di un edificio newari |
L’appuntamento
Arrivai in ritardo all’appuntamento non perché mi fossi intrattenuto troppo ma per un semplice errore di omonimia d’hotel. Lei gentilmente mi chiese dove volessi andare, ma dato che lei aveva vissuto per alcuni mesi a Kathmandu le risposi che sarebbe stata lei a decidere dove andare. Così imboccammo una strada fino a giungere a Indra Chowk, una piazzetta del quartiere Thamel. Qui c’era il tempio induista Akash Bhairab dove siamo entrati sedendoci per qualche minuto di fronte alla statua. La sosta in quel tempio davvero era piacevole perché pur essendo ubicato in una piazzetta caotica permetteva, al suo interno, di ritrovare un attimo di quiete e assaporare un'affascinante atmosfera religiosa. Lei veniva spesso lì, perché la faceva stare bene. Nel frattempo i fedeli che giungevano invocavano una preghiera alla divinità attraverso il suono di una campana, la recita di un mantra e il triplice giro dell’altare. Le donne invece si occupavano di tenere in ordine il luogo sacro facendo delle pulizie o raccogliendo le offerte.
La scossa di terremoto
Al termine della visita dalla piazza abbiamo imboccato una traversa che ci avrebbe condotti ai templi di Durbar Square. Tuttavia abbiamo avuto appena il tempo di iniziare a percorrere la strada quando un forte rumore ci ha destati; una serie di colpi, che sul momento avevo associato a degli spari, hanno ingenerato subito il terrore tra i nepalesi. Non sapendo di cosa si trattasse il mio sguardo si è rivolto istintivamente in alto dove nel frattempo s’erano levate in volo le colombe spaventate. Era forse in corso un colpo di Stato da parte dei militari? Questo è ciò che ho pensato sul momento, poi però anch'io istintivamente sono scappato al centro della piazza come faceva il resto della gente, senza capire ancora cosa stesse succedendo. Nel momento in cui mi sono fermato ho percepito chiaramente che il terreno sotto i piedi stava tremando, la vibrazione era talmente forte da costringermi a divaricare le gambe per evitare di cadere. E mentre ondeggiavo provando a mantenermi stabile ebbi come un senso di stupore perché tra tutti gli imprevisti che avevo ipotizzato riguardo al Nepal il terremoto non era contemplato. Non avevo mai sentito parlare di terremoti in questo paese, anzi ero persino convinto che essendo così in quota e a ridosso della catena himalayana la sismicità fosse rara. Rievocai solo in quel momento che era la placca indiana a spingere su quella asiatica determinando il fenomeno che stavo vivendo.
In quello stesso istante un nepalese in preda al terrore mi afferrò il polso stringendolo forte, i suoi occhi sgranati, persi nel vuoto, mi ricordavano quelli del rivoluzionario rappresentato da Goya nel quadro 3 maggio 1808: gli stessi baffi, la stessa carnagione scura e lo stesso timore di perdere la vita davanti al plotone d’esecuzione dei soldati francesi. Capii che quel gesto per lui era una fonte di conforto così non feci più caso alla sua mano, anzi considerai quel contatto di uno sconosciuto come il sentimento più umano che potessi vivere in quei secondi di terrore; dei secondi eterni, come sempre in questi casi, essendo la scossa durata quasi due minuti.
Non era la prima volta che sentivo il terremoto, provenendo da una zona sismica questa percezione adrenalinica si è più volte manifestata, anche se per brevi istanti, ma in un tempo così prolungato la mente ha la possibilità di elaborare moltissimi pensieri e sensazioni. Dapprima cercavo rassicurazioni circa la mia incolumità guardando gli edifici attorno a me, che fortunatamente non mostravano segni di cedimento o di crollo; e forse proprio a causa di questa certezza ho mantenuto per tutto il tempo una freddezza e una lucidità che non avrei mai immaginato. Non mi sono fatto mai sopraffare dal panico, anzi l’autocontrollo mi ha indotto ad acuire i sensi tra cui quello dell'equilibrio, ciò mi ha permesso di visualizzare mentalmente quella sensazione come di una vibrazione sinusoidale con creste d’onda marcate, la cui propagazione procedeva in senso orizzontale; una sensazione che mi fece porre anche una domanda: come riuscivano a restare in piedi i palazzi se persino il mio equilibrio era messo a dura prova? Eppure ciò avveniva, ed era la ragione per cui tutti coloro che si trovavano con me in quella piazza e nelle immediate vicinanze, non avevano riportato alcun danno. La piazza normalmente piena di gente adesso traboccava di superstiti fuggiti da ogni angolo del circondario, mentre davanti a me una donna in ritardo rispetto all'inizio della scossa, scappava dalla stradina, forse fuggendo da un’abitazione.
Al mio fianco un gruppo di donne piangeva tenendosi abbracciate, mentre alle mie spalle udivo frasi scomposte e urla, come quelle ben più familiari di un mercato rionale. Ciò che non riuscii a sentire invece era il tipico rumore grave dei terremoti che in quella circostanza, probabilmente, era coperto dalle grida della gente o forse, a causa della geologia del luogo, la propagazione del suono risultava diversa. Ammetto di non aver mai provato un tale senso di sottile comunanza con tanta gente come in quel momento; eravamo tutti stretti l’uno accanto all’altra, vivendo la stessa paura e la stessa volontà di uscirne illesi: anche se venivamo da luoghi, lingue e culture completamente diverse, l’empatia collettiva e il senso di coscienza era la medesima.
Quando la scossa ha allentato la sua intensità la riduzione della sua potenza è stata, per me, del tutto sorprendente. A mia memoria quando un terremoto cessa finisce d’essere percepito dai sensi, come se una mano invisibile girasse un interruttore per interrompere il movimento. In quel terremoto invece la diminuzione dell’intensità era avvenuta con uno smorzamento elastico che via via andava scemando. Questa sensazione mi ha fatto pensare di poggiare i piedi non sulla terra ferma ma su di un rullo elastico, come se l'evento non fosse reale ma artificialmente indotto. Mi ha stupito notare che la terra che noi consideriamo normalmente dura, compatta e resistente, in realtà possegga delle caratteristiche opposte. Avrò modo di leggere successivamente che il sottosuolo della capitale si trova sul letto di un antico lago prosciugato e riempito di rocce sedimentarie che hanno amplificato gli effetti del sisma e probabilmente hanno causato questa mia percezione.
Il terremoto da una webcam a Durbar square
Al termine della scossa
Quando ho pensato che il terremoto fosse finito in realtà le punte dei lampioni e delle antenne oscillavano ancora: forse l’evento non era ancora del tutto terminato o forse i miei sensi mi ingannavano dopo tanto scuotimento. Poi con lo sguardo ho cercato la mia amica che assurdamente si era rifugiata in una casa di legno e mattoni proprio di fronte a me. Le feci cenno di avvicinarsi dicendole che quello in cui si era rifugiata era il luogo peggiore in cui potesse fermarsi durante un terremoto. Lei si giustificò con il ragionamento istintivo di chi, provenendo da un paese privo di sismicità, non ha familiarità con i comportamenti da tenersi. Ma per fortuna non le era successo nulla, salvo il fatto d'essere ancora terrorizzata per quanto accaduto.
Quando tutto fu più calmo le suggerii di muoverci in un luogo più ampio anche per capire gli effetti del sisma. Ma per quanto avessimo vissuto attimi di paura, intorno a noi non c'erano molti danni, solo qualche calcinaccio e una vetrina frantumata lungo la via. Ciò mi ha indotto a pensare che forse il terremoto non fosse stato così forte come pensavo, tuttavia mi resi conto d'essere dentro un evento storico, una circostanza di cui ero testimone oculare e per questa ragione estrassi la mia reflex.
I crolli
Camminammo lungo la strada giungendo ad una rotatoria dove la gente si era riversata come fosse una barca di profughi in mezzo al mare. Ma accanto ad essa c'era un edificio seriamente danneggiato. La rotatoria che si collegava ad un'altra strada di accesso a Durbar square mi indusse a gettare uno sguardo lungo la via. Fu in quel momento che capii l'entità dei danni riportati dalla capitale. Sulla mia destra erano crollate parti delle due cosiddette torri, la torre di Patan e la torre di Basantapur, somiglianti più che altro a dei templi in ragione della forma dei tetti. Sulla strada erano caduti dei detriti di legno e mattoni che per fortuna non avevano colpito nessuno; ma più avanti, a fianco di questi edifici, i danni erano maggiori, perché il palazzo bianco in stile europeo chiamato Gaddhi Baithak mostrava un'ala totalmente crollata e la restante facciata seriamente danneggiata: sembravano gli istanti successivi ad un bombardamento aereo.
Ci siamo avvicinati giungendo nello stesso luogo dove giorni prima m'ero soffermato a prendere un tè, ossia Basantapur square, la piazza che fa ad angolo con la famosa Freak street e la vicina Durbar square. Il luogo era pieno di gente, essendo uno spazio sufficientemente sicuro. Da quel punto, superata l'emozione iniziale riuscii a gettare uno sguardo oltre la folla, là accanto all'edificio settecentesco della kumari che era rimasto integro, c'era un cumulo di macerie formato dai mattoni rossi del basamento e assi di legno: il tempio induista Trailokya Mohan Narayan del 1680 era crollato! Grande fu il mio stupore perché la polverizzazione di quel gioiello fotografato giorni addietro chiariva ancor più le proporzioni della tragedia. Seppure a distanza notai, tra le macerie, alcune persone intente a scavare con le mani nude per estrarre coloro che fossero rimasti sepolti.
La comunicazione via internet
La gravità della situazione era tale da sentire di dover comunicare a casa, per questa ragione estrassi il cellulare (incredibilmente la rete telefonica funzionava bene) e abilitai l'uso dei dati. Non appena la connessione fu stabilita su whatsapp giunse un messaggio di mio fratello che anticipandomi mi informava del terremoto. La notizia era già arrivata in Italia dopo mezz’ora circa dall'evento! Nel momento stesso in cui mi disse che la magnitudo rilevata era di 7,8 Richter capii d'aver vissuto la circostanza più pericolosa della mia vita.
Un modo per tornare in albergo
Quella consapevolezza mi fece sentire improvvisamente precario. Mi trovavo al centro di Kathmandu e non sapevo ancora che fine avesse fatto il mio amico. Non avevo dubbi sulla tenuta dell'edificio, che proprio come gli altri edifici moderni era fatto in cemento armato, tuttavia mi mancava la certezza delle sue condizioni. Ci fu poi un'altra scossa, forte ma non troppo lunga che mi fece ricordare che dopo un sisma violento lo sciame che ne sarebbe seguito era altrettanto pericoloso. Sicché dissi alla mia amica che forse era meglio cercare un taxi, anche se avrei voluto comprendere meglio ciò che stava accadendo: mi sarebbe piaciuto girare i quartieri vicini per capire la condizione degli altri edifici, o magari partecipare ai soccorsi. Ma con quel caos riuscire a tornare in albergo avrebbe comportato troppi ritardi e la cosa più importante, in quel momento, era tornare indietro.
La mia amica, seppur spaventata, volle farmi ancora compagnia così abbiamo ripercorso la strada da cui eravamo venuti. Mentre in quel momento giungevano correndo quattro persone che trattenevano dalle gambe e dalle braccia un uomo, lo stavano portando al sicuro. Il poveretto era tutto impolverato, con delle escoriazioni sulla testa ma ancora lucido, tanto da essere caricato su di una moto di grossa cilindrata che partì verso un ospedale. Questa scena, così rapida e inattesa mi è parsa persino irreale, facendomi sentire come all'interno di un film. Per questa ragione la realtà davanti agli occhi viene spesso paragonata ad un film, perché è a quell'unica esperienza cui possiamo attingere in mancanza di una letteratura o di una pittura di genere.
Finalmente a più di mezz'ora dalla prima scossa, giungevano i primi soccorsi in piazza. Due automezzi a sirene spiegate si dirigevano verso gli edifici crollati. Non sembravano dei mezzi particolarmente organizzati, come poteva essere una squadra di pompieri, ma erano almeno il segno che i soccorritori erano giunti sul posto.
Non troppo lontano da Durbar square c'era una strada sufficientemente ampia dove c’erano diversi taxi fermi. Chiesi se era possibile andare a Bodhanath ma mi dissero che a causa del terremoto non si sarebbero mossi per almeno due ore. Poi un’altra scossa violenta, abbastanza lunga da far comprendere quanto ancora l’emergenza fosse ben lontana dall’essersi risolta. Capii quindi che sarei dovuto tornare a piedi e che anzi, più tempo perdevo e più rischiavo di arrivare tardi. Fu a quel punto che salutai la mia amica, raccomandandole di farsi forza e di stare attenta perché il pericolo non era ancora cessato.
Utilizzando la mappa di Kathmandu già caricata nel cellulare individuai il percorso per raggiungere l’albergo. Non era complicato, ma misurava 5 km dal punto in cui mi trovavo perché era alla periferia della città. Così percorsi le strade principali, mantenendomi rigorosamente al centro della carreggiata.
Inviai anche un SMS al mio amico, ma tanto le nostre SIM italiane erano inservibili in Nepal. Poi collegandomi ad internet vidi che mi erano giunti diversi messaggi su Facebook e su whatsapp da parte di molti amici che avevano saputo del sisma: così lasciai un messaggio rassicurando tutti.
Una domanda grottesca
Lungo le strade i danni non sembravano così ingenti, la maggior parte delle costruzioni che vidi avevano retto, salvo alcuni casi. I crolli interessavano i vecchi edifici o i templi. In una strada principale era crollato un antico portale in pietra che successivamente, su internet, avrò modo di riconoscere in un video nell'atto del crollo. Vidi anche la facciata di una vecchia casa crollata accanto ai fili della corrente nonché un vicolo dove era venuta giù una parete.
Un episodio grottesco mi è accaduto invece mentre camminavo, un nepalese si è affiancato a me e mi ha chiesto di dove fossi non perché fosse spinto da ragioni oscure, quanto per la solita genuina curiosità verso gli stranieri. Quando ha saputo che ero italiano mi ha citato Buffon, il portiere della nazionale e io gli ho risposto che lo conoscevo. Non ho aggiunto altro anche perché l’ho preso per uno stupido: cosa lo aveva spinto a farmi quella domanda così stupida proprio in quel momento drammatico? E pensare che mi era sembrato persino inopportuno il fatto di scattare delle foto del sisma…
Nel frattempo la circolazione stradale cominciava a riprendere, anche se ancora non avevo incrociato nessun mezzo di soccorso, non un'ambulanza, solo vetture private e qualche bus di turisti che si allontanava. Col passare dei minuti poi avevano ripreso a circolare anche i primi taxi, tutti rigorosamente occupati, che si dirigevano verso il centro, probabilmente per consentire ai turisti di recuperare le loro cose. Dei coreani invece si allontanavano a piedi trascinando dei pesanti trolley diretti verso l’aeroporto.
Finalmente ritrovo Enrico
La mia lunga camminata si concluse in albergo che per fortuna era rimasto in piedi e senza danni eccessivi. Entrando, il responsabile mi disse che il mio amico era già andato in aeroporto e aveva portato con sé anche il mio zaino. Essendo lì, chiesi di poter verificare se si fosse dimenticato qualcosa in camera, ma non appena feci i primi gradini per salire al piano superiore un’altra scossa di terremoto ci fece fuggire; era una coincidenza che in questo caso interpretavo come la necessità di andare in aeroporto senza perdere più tempo.
Dovetti raggiungere i dintorni dello stupa di Boudhnath per trovare un taxi che senza troppe difficoltà mi condusse finalmente in aeroporto. Lì impiegai un quarto d’ora per trovare il mio amico in mezzo ad un’immane folla di turisti. Ci abbracciammo, sciogliendo una tensione durata diverse ore, non avendo alcuna notizia l’uno dell’altro: in fondo sarei potuto rimanere ferito o non arrivare puntuale sul posto lasciando presagire il peggio. Ora però non restava altro che aspettare il momento in cui saremmo tornati a casa. L'aeroporto infatti era chiuso per una legittima precauzione legata ai controlli da eseguire nelle sale, negli uffici e nelle piste. Per questa ragione chi come me aveva il volo per quel pomeriggio s'era già reso conto che un ritardo prolungato era del tutto inevitabile.
Ad aumentare l'incertezza si univa l'assenza di comunicazioni ufficiali da parte degli addetti dell'aeroporto e il congelamento dei pannelli informativi sullo status dei voli. Le partenze erano ferme alle fasce orarie del mattino e nessun cenno veniva fatto in merito agli altri voli della giornata. Diverse volte poi era andata via la luce, determinando l'oscuramento dei monitor che erano l'unico canale informativo cui fare affidamento. Così non restava che aspettare, consci del fatto che quello era il luogo più sicuro in cui potessimo rimanere.
Il tentativo di avere notizie
Nel pomeriggio inoltrato, scaricando l'email mi è giunto un messaggio da parte di Etihad della cancellazione del nostro volo, senza tuttavia fare alcun cenno alla riprogrammazione. Essendo un messaggio automatico l'esigenza di avere una posizione ufficiale diventava necessaria. Ma nessun addetto di terra della nostra compagnia si era fatto vedere sino a quel momento, mentre le altre compagnie avevano affidato la comunicazione con dei foglietti appesi sui muri dell'aeroporto in cui si informava delle variazioni.
Nel frattempo la palazzina degli uffici era stata riaperta, ma era presidiata da un militare che limitava l'ingresso a poche persone. Riuscii comunque ad entrare e con un certo timore, giunsi all'ufficio del terzo piano dove un addetto mi ha rassicurato che il volo era spostato per l'indomani pomeriggio.
Un rifugio per la notte
Verso le sette di sera, abbiamo preso posto in un punto esterno della zona partenze dell'aeroporto, sotto una tettoia in metallo che ci avrebbe garantito un tetto e una rapida via di fuga in caso di scossa; non era la condizione migliore per passare la notte, ma sembrava il giusto mezzo tra coloro che si erano rifugiati (forse con una certa leggerezza) in una saletta dell'aeroporto e chi aveva preso posto nel parcheggio o sull'erba delle rotatorie di accesso. Alcuni passeggeri erano muniti di sacco a pelo o di tende, dato che provenivano dalle escursioni in quota, ciò gli consentiva di sopportare la notte senza troppi problemi. Noi invece, non avendo trovato neanche delle scatole di cartone, abbiamo limitato il contatto col pavimento tramite dei fogli di giornale.
Nel corso della serata qualche volo era partito, il rumore del decollo aveva scatenato degli applausi spontanei essendo il segnale di una normalizzazione. In piena notte infatti un folto gruppo di indiani e cinesi era partito, a conferma che la mancata autorizzazione all'atterraggio dei velivoli (quella era la voce che girava in quelle ore) poteva essere allentata in base all'influenza politica esercitata dai paesi di origine.
Alla confusione, tipica dell'indole dei popoli di queste latitudini, si univa anche una certa frustrazione che caricava di foga i gesti e le espressioni dei passeggeri; questa sensazione era evidente nei tantissimi indiani che aspettavano gli aerei messi subito a disposizione dal governo indiano.
La notte all’aperto
La prima notte è stata lunga, faceva freddo e la cagnara degli indiani rimasti in fila tutta la notte con i carrelli carichi di valigie, non concedeva un riposo adeguato; e poi il passa e ripassa di gente che ci osservava come fossimo dei senza tetto, mentre il timore di una scossa o la falsa percezione di un tremolio acuiva i nostri sensi. D'altronde nessuno, pur sapendo che il volo era l'indomani, si sarebbe arrischiato ad andare a dormire in un qualsiasi albergo e per questa ragione chiunque era disposto a sopportare simili condizioni.
Guardandomi intorno riflettevo anche su come noi occidentali, con i nostri lavori dignitosi, le case accoglienti e pulite, le lenzuola sempre fresche e con la fissa dell'igiene a tutti i costi, stavamo superando un limite che non avremmo mai immaginato avendolo al più percepito nei pochi giorni di vita nepalese. D’altronde anche una semplice operazione, come quella di andare in bagno, era diventata tremenda perché le toilette dell’aeroporto erano in una condizione igienicamente intollerabile: puzza e sporcizia la facevano da padrone, e per entrare si doveva attendere anche un quarto d’ora vista la confusione.
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