giovedì 12 febbraio 2015

René Guenon


Un indù, riassumendo con estrema coincisione quel che ne pensano tutti gli orientali che hanno avuto occasione di conoscerla, l'ha definita molto giustamente con queste parole: «la scienza occidentale è un sapere ignorante.» Nella giustapposizione di questi due termini ha fatto una contraddizione; ecco quel che essa vuol dire: si tratta, se si vuole, di un sapere che ha una certa realtà, poiché è valido ed efficace in un certo campo relativo; ma di un sapere irrimediabilmente limitato, che ignora l'essenziale, che manca di principio, come tutto ciò che appartiene in proprio alla civiltà occidentale moderna.

Fra le altre cose, gli occidentali rimproverano spesso alle civiltà orientali il loro carattere di fissità e di stabilità, il quale appare loro come la negazione del progresso; […] in ciò è visibile uno degli aspetti essenziali dell'idea di tradizione; la civiltà moderna è invece essenzialmente mutevole proprio perché manca di principio.

La mentalità moderna è quasi unicamente rivolta verso l'esteriore, vale a dire verso il mondo sensibile; il sentimento le appare come interiore, ed essa sovente lo vuole opporre, sotto questo aspetto, alla sensazione; ma tutto ciò è estremamente relativo, e la verità è che la stessa 'introspezione' dello psicologo non raggiunge che dei fenomeni, vale a dire delle modificazioni esteriori e superficiali dell'essere; di veramente interiore profondo c'è solo la parte superiore dell'intelligenza.

La dottrina indù insegna che la durata di un ciclo dell’umanità terrestre, al quale essa dà il nome di «manvantara», si divide in quattro età, che segnano altrettante fasi di un oscuramento progressivo della spiritualità primordiale. Si tratta degli stessi periodi che, da parte loro, le tradizioni dell’antichità occidentale designarono come le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi ci troviamo nella quarta età, nel «kali-yuga» o «età oscura», e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia «classica». A partire da allora, verità già accessibili a tutti sono divenute sempre più nascoste e difficili da raggiungere.

Come lo abbiamo già detto in altre occasioni, ciò che si chiama la Rinascenza fu in realtà la morte di molte cose. Col pretesto di tornare alla civiltà greco-romana, non si prese di essa che quel che vi era di più esteriore, poiché questo soltanto aveva potuto venir chiaramente espresso nei testi scritti; e siffatta restituzione incompleta presentò d’altronde, necessariamente, un carattere quanto mai artificiale, poiché si trattava di forme che da secoli avevano cessato di vivere la loro vera vita. Quanto alle scienze tradizionali del Medioevo, esse, dopo aver avuto in quest’epoca qualche ultima manifestazione, disparvero in blocco, quasi come quelle di civiltà lontane distrutte da qualche cataclisma; e, questa volta, nulla doveva sostituirle. Non restò più che la filosofia e la scienza «profana», cioè la negazione della intellettualità vera, la limitazione della conoscenza al piano più inferiore, lo studio empirico e analitico di fatti non più ricondotti ad alcun principio, la dispersione in una moltitudine indefinita di dettagli insignificanti, l’accumulamento di ipotesi infondate distruggentisi incessantemente a vicenda, e vedute frammentarie che a nulla possono condurre, salvo che a quelle applicazioni pratiche, che costituiscono la sola effettiva superiorità della civiltà moderna: superiorità, invero, poco invidiabile e che nello svilupparsi fino a soffocarne ogni altra preoccupazione ha conferito a tale civiltà quel carattere puramente materiale, che fa di essa una vera mostruosità.

Proprio questo è difatti il carattere più visibile dell’epoca moderna: il bisogno di un’agitazione incessante, di un mutamento continuo, di una velocità sempre crescente che così riflette quella stessa secondo la quale oggi si svolgono gli avvenimenti. È la dispersione nel molteplice, in un molteplice non più unificato dalla coscienza di un qualche superiore principio. Nella vita comune così come nelle concezioni scientifiche, è l’analisi spinta all’estremo, il frazionamento indefinito, una vera disgregazione dell’attività umana in tutti i campi in cui essa può ancora esercitarsi.

Ma la grande abilità dei dirigenti democratici del mondo moderno sta nel far credere al popolo che esso si governi da sé. E il popolo si lascia persuadere volentieri, tanto più che così esso si sente adulato, mentre è incapace di riflettere quanto occorre per accorgersi di una simile impossibilità. Per creare questa illusione, si è inventato il «suffragio universale»: è l’opinione della maggioranza come presunto principio della legge. Ciò di cui non ci si accorge, è che l’opinione pubblica è qualcosa che si può facilissimamente dirigere e modificare.

Si dice che l’Occidente moderno è cristiano, ma è un errore: lo spirito moderno è anticristiano, perché esso è essenzialmente antireligioso; ed è antireligioso, perché, più in generale, esso è antitradizionale.

Più ci si sprofonda nella materia, più i fattori di divisione e di opposizione si accentuano e si estendono. Per contro, più ci si innalza verso la spiritualità pura, più ci si avvicina all’unità, la quale può realizzarsi pienamente solo mediante la coscienza dei principi universali.

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