lunedì 5 settembre 2011

Bucarest


Quale sorte è toccata alla città che un tempo fregiava l’appellativo di “Parigi dell’est”? Cosa resta dei teatri, dei caffè, dei boulevard e degli edifici dai tetti d’ardesia? Un’eredità d’indigenti, uno squasso di pochi violenti in fuga dalla patria, uno sbriciolarsi di famiglie e strade... Resta solo la speranza d’una trasferta breve per l’Europa, dove con pochi Euro torni con scarpe e vestiti finalmente nuovi, ma col prezzo d’un mestiere di giornata e un passaporto di pregiudizi.

Bucarest è grigia, una città consunta da mille palazzoni in rovina, sovietizzata dai monumenti di Governo, dalle piazze senza turisti, da tram invecchiati, da una metropolitana in perenne ritardo, da negozi senza merce, da bar con poca gente e dai troppi locali pieni di puttane. Resta poco d’un passato di provincia Romana, del dominio ottomano o dei fasti della belle epoque, poiché Ceauşescu ha cancellato la memoria nella brutalità delle demolizioni urbane; poi la speranza democratica nella seduzione consumista dei grattacieli nell’apparenza di poter diventare una capitale senza troppe invidie. Ma l’Europa è lontana da qui, se non nei progetti di sviluppo col fregio della bandierina di dodici stelle: un’entità inseguita come un sogno riparatore, un ombrello d’opportunità che consenta l’abbandono d’un aratro per un trattore, d’una trazzera per una strada, d’una Dacia per una Mercedes…

Non è facile sognare a Bucarest quando si è costretti a saltare un pasto o a sperare nella lotteria di fine anno per vincere una TV; per noi questi sono problemi da terzo mondo, un terzo mondo che non consideriamo europeo perché conosciuto distrattamente dal racconto di una badante rumena. Per questa ragione ci si sente come conquistatori di terre, acquirenti d’un paese di balocchi facili, tra locali ed alberghi cinque di stelle a buon mercato. Ma quello è un mondo falsato, una Hollywood per stranieri in pieno vizio. La Bucarest dei rumeni la si scopre al “Club A”, dove si combatteva il comunismo con la protesta della musica, oppure percorrendo piaţa Universităţii (piazza Università) o la storica piaţa Revoluţiei (piazza della Rivoluzione) dove si animò per prima la rabbia anticomunista della capitale: qui oltre alle lapidi dell’89 si apprezza la dignità sobria del cittadino comune, l’eleganza di abiti da quattro soldi che contrastano con l’esuberanza di pochi arricchiti, gli odiati “ex” che nelle oscure spartizioni della finanza postcomunista hanno afferrato un vitalizio d’impunità. Così si guarda con sospetto il doppiopetto di un ministro che varca la soglia dell’edificio più grande del mondo dopo l’immenso complesso del Pentagono: il Palatul Parlamentului (Palazzo del Parlamento), vanto grottesco d’una trasformazione ignobile del passato col presente; per questa ragione nella comunanza latina d’una lingua troppo simile e d’un presente a noi familiare, i destini d’una costola di mondo che umanamente ci sconvolge, sembrano avvolgerci nell’angoscioso abbraccio d’un futuro incerto.

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