Ho un sassolino a togliermi. Me lo tolgo raccontando una vicenda che da un lato mi ha infastidito e dall'altro mi ha aperto gli occhi sul nostro modo di essere siracusani.
Anni fa facevo parte di un'associazione su cui riponevo grandi speranze, non solo perché in essa portavo avanti la mia passione, ma soprattutto perché la consideravo come il miglior mezzo per diffondere la conoscenza e la bellezza. In un'associazione piccola si fa presto ad avere un ruolo attivo, si è in pochi e inevitabilmente si tocca con mano i vari aspetti organizzativi: i rapporti con le altre associazioni, quelli con i soci, quelli con la pubblica amministrazione ecc. È un'ottima esperienza che permette di scoprire come gira il mondo...
Dopo anni di impegno e passione era arrivato il mio momento, venni eletto presidente e affiancato da un amico che come me desiderava imprimere una spinta in avanti all'associazione e alla città. Lui palermitano di nascita e di cultura, aveva nel sangue una natura ancor più attiva della mia; resomi conto che il mio cauto approccio alle novità era solo un preconcetto culturale, decisi di affidarmi al suo istinto. Grazie a lui ho imparato che quando si vuole fare qualcosa di importante bisogna rischiare anche una brutta figura, l'importante è che essa sia a fin di bene.
Così iniziammo un'opera di attivismo e di apporto continuo di idee e novità in associazione. Le riunioni di direttivo divennero frequenti, le decisioni incalzavano, le attività si moltiplicavano e ovviamente la pressione sui soci aumentava. Il concetto di base era quello che: più ti mostri attivo e con attività interessanti, e più attiri interesse verso nuovi soci, ma soprattutto divieni pian piano un'istituzione in città. Iniziarono quindi gli articoli sui giornali che pubblicizzavano le nostre attività, un aggiornamento costante del sito web, le newsletter ai soci. Insomma la macchina organizzativa si muoveva a pieno ritmo.
Così iniziammo un'opera di attivismo e di apporto continuo di idee e novità in associazione. Le riunioni di direttivo divennero frequenti, le decisioni incalzavano, le attività si moltiplicavano e ovviamente la pressione sui soci aumentava. Il concetto di base era quello che: più ti mostri attivo e con attività interessanti, e più attiri interesse verso nuovi soci, ma soprattutto divieni pian piano un'istituzione in città. Iniziarono quindi gli articoli sui giornali che pubblicizzavano le nostre attività, un aggiornamento costante del sito web, le newsletter ai soci. Insomma la macchina organizzativa si muoveva a pieno ritmo.
Ma tutto quell'attivismo non ebbe un riscontro immediato. La pubblicità ci rese famosi ma non incrementò il numero degli interessati, al più dovrei dire che avvicinò coloro che si erano allontanati negli anni passati. Il rovescio della medaglia era però sul fronte interno. L'attivismo non piaceva. Ci si lamentava delle troppe iniziative, dell'uso delle email (considerato un'innaturale sostituto agli incontri reali), ma anche una critica sullo snaturamento dell'associazione troppo incline alla divulgazione e poco alle finalità culturali interne. Si aggiunga poi una ritrosia a portare a compimento semplici compiti: fare delle fotocopie, aggiornare una pagina web, portare del materiale durante le attività pubbliche, venire puntuali alle riunioni, ed essere proattivi quando interpellati. Mano a mano che si andava avanti le resistenze interne aumentavano, come se la nostra voglia di fare ci lasciasse dietro tutti quanti.
Così a malincuore optammo per un rallentamento delle attività, ma non per questo in un rilassamento. Non tolleravo certe sbavature, certe negligenze con i soci, certe dimenticanze. Le cose per me andavano fatte bene, senza approssimazioni e senza la tentazione di tornare indietro. Un'associazione deve crescere sempre, tendere a un certo grado di serietà al suo interno, se l'organizzazione è approssimativa, salta tutto il lavoro costruito nel tempo.
Il mandato di due anni divenne estenuante e complesso, non solo perché si aveva la sensazione d'essere da soli: non era facile avere l'appoggio degli altri e spesso si era costretti a fare anche il compito del segretario, del tesoriere o del webmaster. Tutto in fondo ricadeva sulle spalle del presidente e in pochissimi comprendevano il valore dell'impegno profuso. Sicché al termine del mandato capii che la cosa più saggia era quella di non ripresentarmi a nuove elezioni, di uscire dai ruoli attivi, allentando così quella tensione che nel frattempo era sorta tra di noi. Così ho assunto controvoglia un ruolo passivo (avrei voluto uscirmene subito ma le circostanze me lo impedivano). Col cambio di presidenza le buone abitudini acquisite si persero: i ruoli dei consiglieri non vennero più affidati con oculatezza, le attività diminuirono, l'ordinario tornò ad essere svolto con poca attenzione ecc. Ma questo cambio di marcia non sortì grandi effetti, i soci (non tutti ovviamente) non notarono grandi cambiamenti (in fondo per loro pareva tutto immutato), e i nuovi iscritti mantennero quella bassa frequenza di sempre.
Oggi che non faccio più parte di essa riscontro un mantenimento delle attività ordinarie, ma con la differenza che esse vengono svolte con la sensazione rilassata di sempre. Qualcuno spunta e qualcuno va, senza tuttavia vedere all'orizzonte grandi prospettive, grandi sogni.
Da questa storia ho imparato una cosa fondamentale. Il siracusano, e forse il siciliano in genere, è una persona che si accontenta, che non guarda avanti, al più guarda al presente. Non c'è e non pretende una prospettiva futura, una mission, un sogno concreto. Per lui è sufficiente avere quel poco che gli è concesso, tutto il resto è superfluo, e persino invadente se comporta un suo impegno personale. Il mondo di cui si attornia è piccolo e mediocre, ridotto a uno svago sincero, ma ristretto. Da qui la considerazione che un'associazione, per quanto piccola e composta da una sola tipologia di soci, possa in fondo rappresentare il campione di una società apatica. Da qui si comprende l'accettazione della moltitudine di cittadini delle bieche abitudini: l'assenza di servizi pubblici, l'assenza di regole per strada, l'inciviltà, l'incuria, ma soprattutto quella disarmante abitudine a fare sempre le stesse cose accontentandosi di una inguaribile monotonia. Sicché immagino le reazioni ai possibili mutamenti che un sindaco illuminato potrebbe apportare alla sua comunità: autobus efficienti scontenterebbero coloro che sono abituati a prendere l'autobus calcolandone un fisiologico ritardo, le multe e l'ordine imposto al traffico, anche se smaltirebbero la confusione, richiamerebbero ondate di proteste contro l'ipotetico "sindaco sceriffo", per non parlare di cosa potrebbe avvenire se si multassero le persone perché gettano le carte per terra o perché sporcano... L'assenza di regole, la negligenza e l'apatia (immaginate l'apertura di locali notturni che animino di giovani la città? Apriti cielo!) sono il giusto equilibrio di chi vive la vita fuori dal cambiamento, ma soprattutto fuori dalla voglia di migliorare.
Paradossalmente potrei dire che ho compreso come la gente mostri chiaramente di desiderare che tutto resti per come è oggi: apaticamente rassicurante.
Paradossalmente potrei dire che ho compreso come la gente mostri chiaramente di desiderare che tutto resti per come è oggi: apaticamente rassicurante.
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